di Nathan Greppi
Nel 2006, quando il BDS e gli appelli al boicottaggio d’Israele erano ancora molto meno diffusi rispetto ad oggi, i vertici dell’AAUP (American Association of University Professors) pubblicarono una dichiarazione in cui si opponevano pubblicamente ai boicottaggi universitari, ritenendoli in contrasto con la libertà accademica. Il 9 agosto 2024, poco meno di un ventennio dopo, la stessa AAUP ha adottato una nuova dichiarazione, in cui si afferma che i boicottaggi non costituirebbero una violazione della libertà accademica come avevano sostenuto fino a quel momento.
Questo è solo uno dei tanti effetti della crescente ostilità verso Israele nel mondo accademico statunitense, che in diversi casi ha alimentato un clima d’odio nei confronti degli studenti ebrei in quanto tali. Tanto che in certi atenei, come ad esempio la Columbia, le iscrizioni degli studenti ebrei sono crollate nei mesi successivi al 7 ottobre, a causa di un contesto percepito come troppo ostile.
Chi da anni è testimone diretto di questo clima d’odio, e ne ha costantemente seguito l’evoluzione, è Cary Nelson, docente emerito di inglese presso l’Università dell’Illinois e già presidente dell’AAUP dal 2006 al 2012. Studioso della poesia americana moderna, è autore e curatore di diversi saggi sull’antisionismo universitario, tra cui The Case Against Academic Boycotts of Israel (2014), Israel Denial (2019) e Hate Speech and Academic Freedom (2024).
Lei è stato presidente dell’American Association of University Professors.
Sì, e sono stato anche un membro del loro “Comitato A”, quello che ne stabilisce le politiche, fino al 2015. Nel complesso, ho trascorso 23 anni nella direzione dell’AAUP, alla quale sono tuttora iscritto.
Come è cambiato, nel corso degli anni, il loro approccio nei confronti dei boicottaggi?
L’AAUP è nata nel 1915. In oltre un secolo di storia, erano sempre rimasti fedeli all’idea che una volta adottata una certa politica, non si faceva marcia indietro; si poteva modificarla o migliorarla, ma non si metteva in atto un capovolgimento totale della propria posizione. Che io sappia, la retromarcia fatta sulla loro precedente posizione in merito al boicottaggio costituisce il primo caso di questo genere dal 1915 ad oggi; proprio per questo, non mi sarei mai aspettato questa loro ultima decisione.
Tra l’altro, vi è un fatto curioso: quando l’AAUP formula la prima bozza di una dichiarazione, sceglie due o tre persone che la scrivono per poi discuterne con la direzione per eventuali modifiche. Tra coloro che scrissero la prima bozza della dichiarazione contro i boicottaggi del 2006, vi era Joan Scott, una docente di Princeton. Sebbene in un primo momento fosse fortemente schierata contro qualunque boicottaggio, nel giro di un anno e mezzo cambiò idea, e si schierò a favore dei boicottaggi cercando di spingere l’associazione a cambiare direzione. Per molto tempo non ci è riuscita, ma ora invece sì.
In precedenza, c’erano già stati altri episodi controversi legati all’AAUP?
Seguendone l’evoluzione, direi che soprattutto a partire dal 2015 l’associazione ha sempre più preso una deriva antisionista, che prima non c’era. Questa deriva è testimoniata da vari episodi; nel 2020, conferirono un premio a Rabab Abdulhadi, docente di origini palestinesi che insegna alla San Francisco State University. Tutte le attività della Abdulhadi sono funzionali al suo impegno politico, per cui organizza eventi antisionisti e cerca di fare assumere nella sua facoltà accademici con le sue stesse idee. Pertanto, conferirle un premio significa premiare il suo attivismo antisionista.
Un altro episodio risale al 2022, quando l’AAUP cercò di formulare una nuova definizione di antisemitismo, alternativa a quella dell’IHRA; lo fecero in maniera stupida e irresponsabile, senza avere nel comitato competente nemmeno uno studioso esperto di antisemitismo.
Quali potrebbero essere gli effetti a lungo termine del loro cambio di direzione?
Nei prossimi anni si moltiplicheranno le risoluzioni per boicottare le università israeliane. La loro precedente posizione era fondata sul principio secondo il quale la comunicazione aperta al di là dei confini nazionali è fondamentale per la libertà accademica. Ora questo principio è minacciato, perché molte persone cercheranno di boicottare gli atenei israeliani, almeno per un po’. Non credo che vedremo iniziative analoghe contro le università russe o cinesi, ma solo contro quelle israeliane.
Nel dicembre 2023, ha fatto scalpore la testimonianza alla Camera delle presidi di Harvard, MIT e dell’Università della Pennsylvania, in cui alla domanda se invocare il genocidio degli ebrei nel campus violasse i loro codici di condotta, hanno risposto che “dipende dal contesto”. Cosa ha pensato, vedendo quella scena?
Sembrava che avessero tutte consultato lo stesso avvocato e, a giudicare dal risultato, direi che non era uno bravo. Non so se lei conosce l’espressione in inglese “soft ball question”.
No, mi spiace. Che cosa significa?
Nel baseball, esiste la “hard ball”, la palla più dura che usano i giocatori professionisti della Major League, e poi c’è la “soft ball”, più morbida e utilizzata dai dilettanti. Per “soft ball question”, si intende una domanda facile. E in questo caso, quando uno ti chiede se invocare il genocidio degli ebrei viola il tuo codice di condotta, come ha fatto con le tre presidi la deputata repubblicana Elise Stefanik, si sarebbe dovuto semplicemente dire “sì, assolutamente”. Eppure, di fronte ad una domanda tanto semplice, non sono riuscite a dare una risposta intelligente. Hanno dato l’impressione di essere persone senza fibra morale. È stato imbarazzante, non solo per loro, ma più in generale per l’istruzione superiore, che sembra aver smarrito la propria strada.
Per le sue posizioni, lei è mai stato preso di mira dagli attivisti del BDS nella sua università?
Ricevo spesso mail piene di insulti, e alle riunioni può capitare che qualcuno si metta a dire cose spiacevoli su di me o mi dica che non dovrei poter insegnare se ho posizioni filoisraeliane; poi, c’è da dire che io sono attivo nel movimento contro il boicottaggio e per la difesa d’Israele sin dal 2006, per cui ormai ci sono abituato.
Ci sarebbe da fare una distinzione tra prima e dopo il 7 ottobre; dopo quella data, molti accademici ai quali non era mai successo nulla prima hanno iniziato ad essere presi di mira. Personalmente non ho mai subito atti di violenza fisica per fortuna, ma ad alcuni miei colleghi invece è successo.
In un suo articolo apparso nel novembre 2023 sulla rivista “Fathom Journal”, riportava il caso di Lara Sheehi, già docente di psicologia alla George Washington University che ha giustificato l’operato di Hamas in nome della “liberazione”…
A gennaio, dopo le polemiche per le sue parole, la Sheehi ha annunciato di essersi dimessa dal suo incarico alla George Washington University e di averne accettato uno nuovo a Doha, in Qatar. Tuttavia, quello che molti non sanno è che già nel 2023 la Sheehi non era alla George Washington, perché si era presa un anno sabbatico. Provi a indovinare dove lo ha trascorso.
A Doha?
Esattamente. In quel periodo ha viaggiato tra il Qatar e gli Stati Uniti per partecipare a vari eventi, ma credo che abitasse principalmente a Doha. Pertanto, il suo nuovo incarico è il frutto di mesi trascorsi laggiù a intessere relazioni. Già nel 2021, lei aveva dichiarato pubblicamente di sostenere Hamas; e pur non potendo provare nulla, dubito che la sua scelta di stabilirsi in Qatar sia stata casuale.
A parte il caso specifico della Sheehi, quanto è diffuso il giustificazionismo del 7 ottobre nel mondo accademico americano?
Se guardiamo più in generale all’Occidente, mi sembra che i docenti universitari che hanno dichiarato pubblicamente di sostenere Hamas e di approvare ciò che ha fatto il 7 ottobre si trovano principalmente nei paesi anglofoni. È negli Stati Uniti, in Canada e nel Regno Unito che molti accademici hanno affermato testualmente che il 7 ottobre era “bellissimo”, “una liberazione”, “la cosa migliore avvenuta nel mondo da che ho memoria”. Forse c’entra il fatto che in Europa i discorsi d’odio vengono maggiormente puniti.
Se gli accademici che hanno sostenuto il terrorismo sono stati subito criticati, certi gruppi studenteschi si sono schierati in pochi giorni dalla parte di Hamas. Uno dei più estremi è SJP (Students for Justice in Palestine), al quale si è recentemente allineato un nuovo gruppo, FJP (Faculty for Justice in Palestine). Tuttavia, questo secondo gruppo nasconde i nomi dei suoi affiliati, e hanno dichiarato il loro sostegno a SJP mantenendo l’anonimato.
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Già nel 2018, lei ha raccontato a “Mosaico” che a sostenere il BDS fosse anche l’associazione ebraica di estrema sinistra JVP (Jewish Voice for Peace), usata dagli antisionisti come foglia di fico per difendersi dalle accuse di antisemitismo. Rispetto al 2018, che cosa è cambiato?
Oggi JVP gioca un ruolo molto più importante di quello che poteva avere nel 2018; hanno molti portavoce presenti negli accampamenti allestiti nelle università americane, e vengono continuamente messi sotto i riflettori.
Per fare un esempio, in occasione dell’accampamento all’UCLA, l’Università della California a Los Angeles, diversi studenti ebrei querelarono l’università perché gli accampati avevano impedito loro di muoversi nel campus e recarsi in biblioteca; di fatto, bloccavano intenzionalmente l’accesso agli studenti ebrei. In quell’occasione, l’FJP rilasciò un documento in cui dichiaravano di non poter essere antisemiti, in quanto avevano esponenti di Jewish Voice for Peace tra i loro sostenitori.
Cosa dovrebbero fare le istituzioni accademiche per contrastare l’odio verso gli ebrei e Israele negli atenei? Quali tattiche andrebbero adottate?
Qui all’Università dell’Illinois, io e il mio collega Brett Kaufman abbiamo creato un gruppo accademico chiamato Faculty for Academic Freedom and Against Antisemitism, presente nei campus di Chicago e Urbana-Champaign. Finora hanno aderito più di 80 persone in pochi mesi. A differenza dei nostri avversari, che si nascondono dietro l’anonimato, noi abbiamo un Comitato Esecutivo i cui membri sono tutti indicati con i loro nomi sul nostro sito.
Un’altra iniziativa a cui ho contribuito, assieme a due amici che insegnano all’Università del Minnesota e a Berkeley in California, è stata la pubblicazione di una dichiarazione contro i boicottaggi accademici. Possono firmarla accademici da tutto il mondo, non solo americani, e finora ha già raccolto più di 3.400 firme.