di Aldo Baquis
Economia, sicurezza, terrorismo, i temi sul tappeto. E poi: gli accordi
con l’Iran sul nucleare; trasferire l’Ambasciata degli States a Gerusalemme; garantire la superiorità militare dello Stato ebraico. E soprattutto, la politica di investimenti Usa in Medio Oriente. Che cosa si aspetta Israele dal nuovo inquilino della Casa bianca?
È stata una campagna a colpi di machete. «L’Isis? Colpa di Obama e dell’amministrazione Clinton». «Hillary? Non ha l’aspetto del Presidente. E non credo che ne abbia la resistenza fisica». «Trump? Ha chiamato le donne “cagne”, “maiali”. È uno che ha detto che le gravidanze sono un problema per i datori di lavoro, vi rendete conto?». Questi, solo alcuni dei colpi che si sono lanciati reciprocamente Hillary Clinton e Donald Trump alla vigilia delle elezioni, affrontando i temi “caldi” dell’attualità americana e internazionale: economia, sicurezza (interna ed esterna), terrorismo. E anche se Israele non è mai stata nominata esplicitamente – qualche riferimento è stato fatto alla difficile situazione in Medio Oriente – eloquente, però, è il fatto che entrambi i candidati si fossero ritagliati del tempo per incontrare Beniamin Netanyahu, a New York per la recente conferenza Onu. Da entrambi, il premier israeliano aveva raccolto espressioni tranquillizzanti e di grande calore. E al rientro a casa aveva subito rassicurato il suo governo: «Vinca chi vinca, il prossimo inquilino della Casa Bianca sarà comunque al fianco di Israele».
A partire da tutto ciò, quindi, quale possibile scenario per Israele all’indomani delle elezioni? Innanzitutto, va detto che già aveva fatto ben sperare il discorso pronunciato da Barack Obama al funerale di Shimon Peres. Obama – che pure è stato spesso oggetto di critiche a Gerusalemme – ha traversato l’Oceano per pronunciare di persona un sentito elogio funebre in cui ha delineato una volta di più le radici profonde dell’alleanza fra Usa ed Israele. «I nostri rispettivi padri fondatori erano veri idealisti – ha rilevato – non persone ciniche. Lavoravano per un futuro migliore, non solo per le loro Nazioni ma per l’umanità». Con lui è giunto anche Bill Clinton: rimbalzate da Gerusalemme, le sue immagini hanno rafforzato la posizione di Hillary nell’elettorato ebraico statunitense. Scottato dalle scorse presidenziali in cui era apparso sostenere lo sfidante repubblicano Mitt Romney, in questa circostanza Netanyahu è stato ben attento a non apparire in alcun modo parziale.
Dall’incontro con Trump è emerso l’impegno del candidato repubblicano di trasferire a Gerusalemme, non appena eletto, l’ambasciata statunitense in Israele. In passato altri candidati hanno fatto promesse analoghe, per dimenticarle subito dopo essere entrati in carica. Hillary Clinton ha assicurato che si impegnerà per garantire la superiorità militare di Israele rispetto ai vicini. E non dimentichiamoci che, ancora a settembre, l’amministrazione Obama ha raggiunto un accordo che assicura aiuti militari statunitensi ad Israele per 38 miliardi di dollari nel prossimo decennio: una cifra record nei rapporti bilaterali, e senza paragone con alcun altro Paese al mondo.
Malgrado gli screzi fra Obama e Netanyahu, ancora oggi gli Stati Uniti vedono Israele come un’isola di stabilità nelle turbolenze mediorientali. Da un lato c’è forte amarezza per l’insuccesso dei progetti americani di raggiungere una soluzione definitiva del conflitto israelo-palestinese. Eppure Washington era stata incoraggiata dalla discreta rete di cooperazione intessuta dal premier con Paesi arabi moderati (Arabia Saudita, Egitto, Giordania); con i Paesi del Mediterraneo orientale (Grecia, Cipro, Bulgaria) e anche con la Turchia di Erdogan, che ha appena siglato con Israele un accordo che mette fine ad una crisi apertasi nel 2010 con l’intercettamento in alto mare della Mavi Marmara, la nave che cercava di forzare il blocco di Gaza.
Ma che cosa si aspettano dunque Israele e il suo governo dal prossimo Presidente USA? Un’amministrazione Clinton significherebbe – agli occhi di Israele – una prosecuzione della politica di Obama, con una dose accresciuta di calore umano alla Casa Bianca. Sul piano politico, ciò significa che due elementi di tensione fra Washington e Gerusalemme resterebbero costantemente sul tavolo: la richiesta americana di una politica israeliana che mostri finalmente la volontà di lavorare per la costituzione di uno Stato palestinese democratico al fianco di Israele (e dunque la condanna della politica di insediamento ebraico in Cisgiordania e a Gerusalemme est); e la difesa degli accordi sul nucleare iraniano che invece sono invisi a Israele al punto che il ministro della difesa Avigdor Lieberman li ha paragonati ai traumatici accordi di Monaco del 1938. Osservatori a Gerusalemme fanno inoltre notare che – come ultimo atto, prima di uscire di scena– Obama potrebbe far approvare al Consiglio di sicurezza dell’Onu una mozione relativa allo Stato palestinese (a 50 anni dalla Guerra dei sei giorni) che legherebbe le mani alla stessa Clinton, se eletta, e ad Israele (stiamo scrivendo questo articolo alla vigilia delle elezioni Usa). Una Clinton alla Casa Bianca potrebbe poi significare la scelta del marito Bill come emissario personale in Medio Oriente. Bill che si considera il depositario dell’eredità politica di Yitzhak Rabin, come dimostra il minuto di raccoglimento da lui osservato sulla sua tomba ai margini dei funerali di Peres. Dunque una “Amministrazione H. Clinton” potrebbe non essere una luna di miele per il governo Netanyahu, in cui la componente nazionalista scalpita in questi mesi per un’annessione unilaterale di porzioni della Cisgiordania.
Sulla carta, i testi recitati da Trump in campagna elettorale sono più gradevoli per orecchie israeliane. Innanzitutto la sua critica feroce degli accordi con l’Iran. Poi la sua promessa di trasferire a Gerusalemme l’ambasciata Usa e anche una certa malleabilità sulla questione degli insediamenti ebraici. La sua forza polemica nei confronti del terrorismo internazionale e, più in generale, verso l’immigrazione di musulmani – accompagnata alla stima per le tecniche di antiterrorismo messe a punto da Israele – fanno trapelare la possibilità di un terreno di intesa col governo Netanyahu. Ma nel dibattito con la Clinton, Trump ha evidenziato anche altri aspetti della sua politica che potrebbero riflettersi molto negativamente su Israele. Da presidente, Donald Trump cercherebbe di ridurre gli impegni degli Stati Uniti verso la comunità internazionale: a partire dalla Nato, ma includendo anche trattati economici a suo parere sfavorevoli per l’economia statunitense. Una politica americana di isolazionismo avrebbe certamente ripercussioni mondiali. In Medio Oriente indebolirebbe i regimi sunniti moderati (Egitto, Giordania, Arabia Saudita) e aprirebbe un insperato spazio di manovra alle forze sciite fedeli all’Iran (inclusa l’ala militare di Hamas a Gaza). In Siria anche la Russia, assieme a Iran e Hezbollah, ne trarrebbe immediato vantaggio. Scenari, questi, che non promettono maggiore stabilità per il Vicino Oriente. Sulla questione palestinese, Trump – a differenza di Obama e della Clinton – si affaccia alla ribalta privo di idee concrete. L’esperienza passata insegna che al vuoto della diplomazia si accompagna talvolta un rigurgito di violenza. Al ritorno di Netanyahu da New York, 88 senatori (repubblicani e democratici) hanno sottoscritto un documento in cui chiedono all’amministrazione presente e a quella futura di impegnarsi a non mettere mai Israele con le spalle al muro. Il sostegno ad Israele resta oggi, nel Congresso, saldamente bipartisan. Ma la demografia americana è in rapida evoluzione e nuovi strati sociali emergono. La progressiva erosione delle simpatie verso lo Stato ebraico è già molto tangibile nei campus universitari (come ha dimostrato la campagna elettorale di Bernie Sanders) e nel movimento nero di protesta Black Lives Matters. Il futuro delle relazioni Usa-Israele sarà così legato non solo alle vicissitudini dello scacchiere mediorientale, ma anche all’evolversi della demografia americana e alla misura in cui il nuovo Presidente saprà plasmare e indirizzare il proprio popolo.