di Paolo Castellano
«Il mondo arabo non è interessato alle vite degli arabi che subiscono immani torture nelle carceri dell’Autorità Palestinese»: questo è il durissimo j’accuse di Judith Bergman. Il 27 febbraio l’analista politica ha infatti pubblicato l’articolo Il razzismo associato alle organizzazioni per i diritti umani, apparso sul Jewish News Syndicate. La Bergman ha infatti commentato i risultati di alcune recenti indagini sulle sevizie subite dagli arabi nelle strutture di reclusione dell’Autorità Palestinese. La giornalista ha inoltre documentato il disimpegno di alcune importanti organizzazioni per i diritti umani che hanno rifiutato di supportare economicamente le vittime delle torture palestinesi perché non sono “perseguitate dallo Stato ebraico”.
Proviamo ad analizzare i dettagli dell’analisi della Bergman. Secondo lei, la maggioranza delle organizzazioni per i diritti umani, fondate all’estero, ma che operano in Israele, non si occupano oggi dei diritti umani di tutti. Da sempre gli israeliani hanno espresso il loro scetticismo su queste ONG che sono considerate uno strumento politico per conseguire la distruzione dello Stato ebraico attraverso il “Lawfare”: termine che indica tutte quelle azioni legali che mirano a distruggere uno stato.
L’Autorità Palestinese e le torture nelle sue carceri
Nell’estate del 2017, la Corte Distrettuale di Gerusalemme ha stabilito che tra il 1995 e il 2002 l’Autorità Palestinese ha promosso gli accoltellamenti, le torture e le uccisioni di dozzine di arabi che erano stati sospettati di collaborare con Israele – alcuni di loro avevano la cittadinanza israeliana. Il tribunale ha raccolto infatti delle estenuanti testimonianze di arabi che sono stati sottoposti alle più atroci torture nelle celle dei centri di detenzione dell’Autorità Palestinese.
L’Autorità Palestinese ha naturalmente negato tutte le accuse, ma il giudice ha deciso che l’accumulo di prove ha contribuito alla condanna dell’Autorità Palestinese per i reati di tortura grave e anche di omicidio. Questa tortura include la così detta “posizione shabah”, usata ampiamente nelle prigioni dell’Autorità Palestinese, in cui la vittima viene appesa al soffitto per diverse ore e percossa su tutto il corpo.
Secondo il verdetto, le torture includevano anche scariche elettriche, versamento di plastica bollente sul corpo, strappo delle unghie, rottura dei denti, sterilizzazione, deprivazione del sonno, cibo e acqua, violenza sessuale e stupro dei membri della famiglia. Secondo quanto riferito dai sopravvissuti, l’Autorità Palestinese ha anche assunto dei dottori per peggiorare le condizioni dei prigionieri, iniettando urina nelle vene dei reclusi.
La sentenza ha concluso che l’Autorità Palestinese è stata responsabile delle torture, quindi, responsabile dei danni alle vittime a cui è stata rovinata la vita per sempre. Tuttavia, per realizzare questo risarcimento, gli ex-prigionieri hanno bisogno di ottenere delle valutazioni mediche sulle loro condizioni. La redazione di questi documenti è una procedura davvero costosa perché effettuata da medici esperti.
L’appello d’aiuto alle ONG per i diritti umani
Come ha riportato un’inchiesta dell’Israel Hayom, gli avvocati Barak Kedem e Aryeh Arbus si sono rivolti a 15 organizzazioni per i diritti umani con lo scopo di ottenere il loro appoggio e aiuto nel pagare i costi delle valutazioni mediche. «Queste sono persone spezzate nei loro corpi e nelle loro anime, che… non sono in grado di pagare le perizie professionali, che costano migliaia di shekel per ogni valutazione», gli avvocati hanno scritto nei loro appelli alle 15 organizzazioni.
L’appello è stato inviato ad alcune ONG: Adalah, Amnesty International, B’Tselem, New Israel Fund, Rabbini per i diritti umani, Yesh Din, Medici per i diritti umani e il Comitato per la Prevenzione della Tortura. Solo le ultime due hanno offerto assistenza, mentre le restanti hanno ignorato l’appello oppure risposto negativamente.
Adalah ha detto che la propria organizzazione “aiuta solo i palestinesi che sono citati in giudizio dallo Stato di Israele”. Amnesty International ha invece risposto che la sua organizzazione “non ha gli strumenti professionali per colmare i bisogni delle vittime”, la restante Yesh Din ha espresso “sentimenti di rabbia e dolore”, ma ha spiegato che non avrebbe potuto aiutare gli ex-prigionieri perché rappresenta solo “le vittime che subiscono violazioni e danneggiamenti dalle autorità israeliane o dai cittadini israeliani”.
ONG sempre più politicizzate
«Queste organizzazioni per i diritti umani hanno finalmente dimostrato che per loro le vite degli arabi non valgono nulla – a meno che non possano essere sfruttate per le loro agende politiche suggerite dai loro sponsor europei e non», ha commentato Judith Bergman.
L’autrice dell’articolo ha inoltre affermato che è raro vedere tale cinica strumentalizzazione delle vite umane, specialmente quando a farlo sono quelle organizzazioni che hanno trovato la loro raison d’être nel prendersi cura delle vite degli altri. «Trattare gli esseri umani come mezzi per conseguire un fine è in qualche modo una forma di razzismo», ha aggiunto.
Come è noto, nessun finanziatore di queste organizzazioni ha espresso alcuna indignazione, come non c’è nessuna indignazione sulle attuali torture dell’Autorità Palestinese. Inoltre, da parte dell’Unione Europea e degli altri stati, non c’è stata nessuna minaccia di sospensione degli aiuti all’Autorità Palestinese dopo le rivelazioni shock sulle numerose torture nelle carceri palestinesi.
Photo credit: (REUTERS/Marko Djurica)