di Carlotta Jarach
Tra le dune sabbiose della Siria c’è una gemma archeologica, un patrimonio artistico millenario che recentemente fa parlare molto di sé: è Palmyra, la perla del deserto.
Di lei si parla tanto sui giornali: c’è chi fa polemica, perché i media si preoccupano più di vestigia che di vite umane, e chi invece grida a gran voce il suo dissenso, come se ciò potesse preservare in qualche modo l’antica città e prevenire una damnatio memoriae che sembra inesorabile.
Ma c’è qualcosa che forse non tutti sanno, su Palmyra: il suo passato ebraico. Era il 1933 quando uno studioso di nome Eleazar Sukenik documentò lì, nella pietra, i versi di apertura dello Shemà, sugli stipiti di una casa, o forse di quella che era una Sinagoga. Fu l’ultimo che fotografò il reperto, che ad oggi gli archeologi non sanno dire con certezza se sia ancora presente nel sito.
Crocevia tra Oriente e Occidente, Palmyra fu una delle più importanti città dell’Impero Romano, e svolse per secoli il fondamentale ruolo di magazzino e di mercato: tessuti, profumi, spezie, gemme, metalli, vetro, vino e monete passarono da qui per oltre tre secoli.
Una città multietnica, dove cultura mediorientale romana e greca si fondono insieme: Flavio Giuseppe, che la conosceva con il nome aramaico di Tadmor, raccontava che fu fondata dal re Salomone, ma le evidenze archeologiche non sono a favore dello storico romano, e gli storici moderni dissentono e identificano Tadmor con la biblica Tamar, probabilmente situata nel Negev.
La presenza ebraica è comunque documentata storicamente da reperti archeologici quali lampade di terracotta e tombe risalenti al III secolo situate a Beit Shearim, fuori Haifa, che recitano: “qui riposano i figli di Palmyra”, a conferma della presenza di un focolare e di una comunità ebraica.
La più significativa testimonianza rimane certamente l’iscrizione dell’apertura dello Shemà, che da sola, in poche frasi, riassume l’intera religione ebraica: chissà se è rimasta ancora lì, e se sarà possibile per noi, un giorno, ammirarla.