di Ilaria Ester Ramazzotti
Ancora prima del shut down dei pub, negozi, ristoranti e locali pubblici che il primo ministro Boris Johnson ha annunciato il 21 marzo, e quando ancora nel Regno Unito tutte le attività economiche restavano aperte per scelta del governo, le sinagoghe e i centri ebraici avevano già deciso di chiudere a causa dell’emergenza coronavirus. Obiettivo, ridurre le possibilità di contagio e proteggere in particolare i più vulnerabili.
Con un gesto senza precedenti, nemmeno durante la seconda guerra mondiale, il rabbino capo britannico Ephraim Mirvis ha annunciato lo scorso 17 marzo che la più grande rete di comunità ortodosse nel paese avrebbe interrotto tutte le attività fino a data da destinarsi, per via della pandemia. Sessanta sinagoghe, dedicate a 40 mila membri, hanno cancellato ogni evento sociale in agenda e interrotto le preghiere e le cerimonie pubbliche.
“L’obbligo che la Torah ci impone di proteggere la santità della vita – ha sottolineato Rav Mirvis in un comunicato -, trascende tutte le altre considerazioni. Pertanto, con molto dolore e con il cuore più pesante, avendo consultato i Dayanim [giudici rabbinici] del Batei Din di Londra e Manchester, ho concluso che abbiamo un imperativo alachico di sospendere qualsiasi attività in tutte le nostre sinagoghe fino a nuovo avviso”. “Garantiamo che la distanza fisica che questo virus crea tra di noi sarà colmata da compassione e gentilezza”, ha concluso il rabbino capo, aggiungendo che si sarebbe continuato a pregare da casa.
Le organizzazioni ebraiche non ortodosse, come le loro omologhe congregazioni statunitensi, oltre a chiudere i templi hanno organizzato le preghiere on line. Alcune comunità ultra-ortodosse, almeno per il momento, non hanno invece deciso di chiudere le porte.