di Anna Lesnevskaya
Mentre Vladimir Putin nel suo discorso alla nazione trasmesso la mattina del 21 settembre annuncia la parziale mobilitazione nazionale per far fronte alla controffensiva ucraina e mentre l’ex rabbino capo di Mosca Pinchas Goldschmidt, il quale ha lasciato la Russia dopo l’inizio dell’aggressione contro l’Ucraina, incoraggia, in un’intervista a DW, tutti gli ebrei a fuggire dal Paese prima che cada di nuovo una cortina di ferro, le sorti dell’Agenzia ebraica in Russia, l’organizzazione che facilita l’Aliyah, rimangono appese a un filo. Il 19 settembre, per la seconda volta consecutiva, la Corte Basmanny di Mosca ha rinviato di un mese l’esame del ricorso con il quale il ministero della Giustizia russo ha chiesto la liquidazione dell’Agenzia. Nella volontà delle autorità russe di far chiudere la Sochnut, che per la prima volta era stata anticipata dal Jerusalem Post il 5 luglio, il governo israeliano aveva visto inizialmente un tentativo di far pressione su Israele per il suo sostegno all’Ucraina, ma il Cremlino ha chiesto di non politicizzare la situazione, rappresentando il caso esclusivamente come un problema di carattere legale.
La giudice Olga Lipkina ha accolto la richiesta dell’avvocato della Sochnut, Andrei Grishaev, di rimandare l’udienza, fissandola al 19 ottobre. In questo lasso di tempo l’Agenzia spera di riuscire ad ovviare alle irregolarità che le contesta la parte russa. Come riporta il sito russo bfm.ru, citando Grishaev, il ministero della Giustizia russo ha trovato errori nello statuto dell’Agenzia, la quale sta cercando, per ora senza successo, di ottenere la registrazione da parte del dicastero del nuovo statuto nel quale sono state apportate le correzioni. Inoltre, alcune filiali della Sochnut sono accusate di aver violato una legge sulla tutela dei dati personali perché utilizzavano sistemi informatici senza licenza. L’avvocato ha dichiarato che l’Agenzia ha cambiato fornitore del sistema per la protezione crittografica dei dati per risolvere anche questa irregolarità.
Secondo le informazioni apprese dal Jerusalem Post, dal 14 settembre l’Agenzia ebraica non manda più alla sede principale in Israele i dati dei cittadini russi che hanno fatto domanda per l’Aliyah, visto che la legge russa vieta di condividere i dati dei propri cittadini con i Paesi esteri. Inoltre, la Sochnut sta organizzando un call center locale per coloro che sono interessati a fare l’Aliyah, al posto del servizio fornito attualmente dal proprio Centro Globale a Gerusalemme. Circa 40 dipendenti locali dell’Agenzia (in tutto per la Sochnut in Russia lavorano circa 200 persone) sono stati mandati in congedo retribuito. L’Agenzia ha confermato al giornale che è nel mezzo di un processo di riorganizzazione.
Durante la precedente udienza del 19 agosto l’avvocato della Sochnut aveva chiesto alla corte di sospendere il procedimento giudiziario e di avviare la procedura di conciliazione, richiesta che è stata respinta. Quando il 21 luglio si è saputo del ricorso del ministero della Giustizia russo, il primo ministro israeliano Yair Lapid aveva detto che la chiusura dell’Agenzia ebraica sarebbe stato “un evento grave” ed avrebbe avuto ripercussioni sui rapporti tra i due Paesi. La visita della delegazione israeliana spedita in Russia dal premier di Israele ai primi di agosto non aveva sortito nessun risultato. Si è reso allora necessario un intervento politico e la questione della Sochnut è stata al centro della telefonata del 9 agosto tra il presidente russo Vladimir Putin e quello israeliano, Isaac Herzog, su iniziativa di quest’ultimo. Come ha riportato il sito Walla News, citando un alto funzionario israeliano, durante la conversazione Putin si è detto disponibile a risolvere la questione sul piano legale e ha precisato che, anche se alla Russia non piace l’emigrazione dei propri cittadini, non impedirà l’Aliyah degli ebrei russi.
Crescono le aliyot dalla Russia. Ma il mondo ebraico è diviso
Secondo i dati svelati dell’Agenzia ebraica il 17 agosto, dall’inizio dell’offensiva russa in Ucraina, circa 20,500 ebrei russi si sono trasferiti in Israele, un individuo su otto rispetto alla popolazione ebraica totale del Paese che si stima sia intorno a 165mila. Il nuovo presidente dell’Agenzia ebraica, Doron Almog, ha dichiarato in una recente intervista al Times of Israel che il call center della Sochnut a Gerusalemme sta ricevendo “una tonnellata di telefonate” dagli ebrei russi che sono angosciati perché temono che non sarà più possibile lasciare il Paese, come ai giorni dei Soviet.
In Russia le organizzazioni ebraiche tendono a minimizzare i numeri sulla fuga degli ebrei diffusi dalla Sochnut. Secondo la Sinagoga Corale di Mosca a lasciare la Russia dall’inizio della guerra sono stati 18mila ebrei. A quanto sostiene Alexandr Kargin, direttore dei programmi della Sinagoga Corale, questi numeri non sono paragonabili al livello di emigrazione degli ebrei che si era registrato dopo il crollo dell’URSS. All’inizio degli anni Novanta circa un milione di persone aveva fatto l’Aliyah dalla Russia, ha notato Kargin, dicendo che parlare oggi di un esodo di massa degli ebrei russi è un’esagerazione.
Il mondo ebraico russo non ha accolto bene neanche la presa di posizione del rabbino Pinchas Goldshmidt, che dopo quasi trent’anni a capo della Sinagoga Corale di Mosca, ha lasciato la Russia e il suo incarico, condannando l’aggressione russa sui media stranieri. Il 5 settembre è stata convocata a Mosca una conferenza straordinaria dei 75 rabbini che fanno parte della Federazione delle comunità ebraiche della Russia (Feor), la quale viene associata al movimento Chabad. Con questa iniziativa si è voluto far passare il messaggio che il dovere dei rabbini è rimanere con le loro comunità, mentre i leader religiosi che partono per motivi politici sono da condannare. “Il rabbino deve sempre essere con i propri ebrei, anche nei tempi più difficili”, ha dichiarato il rabbino capo della Russia Berel Lazar. I rabbini russi hanno detto di pregare perché si fermi lo spargimento del sangue e il Rav Lazar ha ringraziato in particolare i rabbini ucraini che sono rimasti con le loro comunità anche sotto le bombe facendo di tutto per assistere le persone.
Sul palco del Centro comunitario di Mosca è salito anche il presidente della Feor, il rabbino Alexandr Boroda, la seconda figura più importante del mondo ebraico russo dopo il Rav Lazar. Il Rav Boroda si è scagliato contro l’inserimento del proprio nome nella lista dei 6000 personaggi pubblici accusati di fomentare la guerra alla Fondazione anticorruzione dell’oppositore incarcerato Alexei Navalny. L’obiettivo della lista è di far scattare le sanzioni internazionali contro le persone sulla black list.
Il nome del Rav Boroda è stato incluso nella categoria dei “leader dell’opinione pubblica venduti e sostenitori pubblici di Putin” a causa dell’intervista che aveva rilasciato all’agenzia Interfax qualche giorno dopo l’inizio dell’aggressione russa. Il rabbino ha parlato dell’ “impennata di neonazismo” e dell’ “eroicizzazione dei criminali nazisti” in Ucraina negli ultimi anni, avallando in questo modo uno degli obiettivi iniziali citati dal Cremlino come causa di quella che Mosca insiste a chiamare ‘operazione speciale’, ossia la cosiddetta ‘denazificazione’ dell’Ucraina.
Il rabbino Boroda si è difeso in un’intervista a Forward dicendo che le sue parole sono state travisate e prese fuori dal contesto. Ha detto che non ha mai sostenuto pubblicamente l’aggressione russa, ma non l’ha nemmeno condannata e durante l’intervista ha evitato la parola “guerra” in riferimento alle azioni russe in Ucraina. Inoltre, ha definito le sanzioni contro l’oligarca russo di origine ebraiche Roman Abramovich “un problema enorme” per la Feor, dubitandone dell’efficacia. In passato aveva dichiarato che l’ex proprietario del Chelsea è sponsor dell’80% di tutti gli eventi ebraici in Russia.