di Ester Moscati
Ebraismo, tutela dell’ambiente e della natura. L’uomo è il vertice della Creazione, partner e socio del Creatore nell’evoluzione di un processo mai concluso. Guai a colui che si allontana dalla Natura infrangendone i limiti e cercando di dominare e imporre la propria volontà di sfruttamento. Perché compito dell’Uomo è conoscere e salvaguardare l’opera divina. Intervista a Rav Alfonso Arbib
“E il Signore piantò un giardino in Eden e pose l’uomo nel giardino perché lo coltivasse e lo custodisse…”. Queste parole, poetiche e suggestive, di Bereshit/Genesi, raccontano il primo incontro tra l’uomo e la natura. Quali sono i termini, i limiti e le condizioni di questo incontro, secondo la tradizione ebraica?
Ne parliamo con Rav Alfonso Arbib.
«L’uomo è creato come conclusione della Creazione. All’uomo vengono dati vari compiti e il primo è quello di dare il ‘nome’ al creato, agli animali, alle creature… L’idea del ‘dare i nomi’, e ricordo che c’è un’importanza particolare dei ‘nomi’ nella Torà, che cosa significa? Non è semplicemente dare qualcosa di indicativo, ma significa avere una ‘comprensione’ di ciò che si ha davanti. Il nome di una persona non è soltanto un nome, ma indica l’essenza di una persona. Per esempio, secondo i chakhamìm, Moshè ha ‘molti nomi’ ma il più importante è Moshè perché rivela la sua essenza, indica vari elementi della sua personalità. ‘Tirato fuori dalle acque’ secondo il Maharal di Praga significa qualcosa di importante; l’acqua rappresenta la materia e quindi Moshè è colui che supera la materia. Quindi ‘dare un nome’ significa riuscire a cogliere l’essenza delle cose, riuscire a definirle. Questo è un primo elemento importante che riguarda il rapporto con il mondo. Abbiamo il dovere di comprendere il mondo in cui viviamo.
Rambam dice che due mitzvòt fondamentali sono l’amore verso Dio e il timore di Dio. Come si arriva all’amore e al timore? Attraverso la riflessione sulla natura. Perché attraverso la riflessione riusciamo a capire la grandezza di ciò che Dio ha creato; e questo provoca il doppio sentimento, di amore – gratitudine verso Chi ha creato tutto questo – ma anche di timore – la nostra piccolezza davanti alla grandezza. ‘Mi sento un punto oscuro – dice – in mezzo all’universo’ e a maggior ragione di fronte a Dio. Il sentimento di timore – che i nostri Maestri definiscono si chiama ‘timore dell’altezza’ – è la sensazione di essere piccoli di fronte a qualcosa di grandioso. La natura è quindi uno strumento per capire che siamo dentro qualcosa di grandioso.
Noi siamo un punto in mezzo alla natura. Per capirlo però non mi basta l’osservazione, non mi basta guardare un albero o un bel tramonto».
È questo il senso di ‘dare il nome’, comprendere l’essenza delle cose, della natura, non in modo impressionistico e superficiale, ma profondo.
«Un Maestro contemporaneo del movimento del Musar, Rav Shlomo Wolbe, dice ai suoi allievi ‘volete capire qualcosa? Concentratevi su una foglia. Quanto c’è da imparare da come è fatta una foglia!’. L’idea è quella di andare oltre la semplice osservazione, ma comprendere. Infatti, Rambam, subito dopo aver parlato delle mitzvòt dell’amore e del timore, affronta una esposizione di fisica aristotelica, la fisica della sua epoca, perché pensa che la comprensione della natura dal punto di vista scientifico sia la strada per adempiere alle mitzvòt e dunque arrivare al rapporto con Dio. È un elemento assolutamente caratteristico della tradizione ebraica, che ci invita a non essere mai superficiali».
“Comprendere”, avere una visione non superficiale del mondo in cui si vive, è dunque il primo elemento del rapporto tra uomo e natura. Quali sono i passi successivi?
«Il secondo elemento è costituito dal compito di ‘lavorare e conservare’ il Creato. Ci sono numerose interpretazioni, ma i chakhamìm dicono molto chiaramente che esiste anche il significato più semplice: non distruggere ciò che Dio ha creato. C’è a questo proposito un midràsh molto famoso, quello sulla creazione della luce. La luce è stata creata il primo giorno della Creazione. Ma il sole e la luna solo il quarto giorno. Quindi è evidente che la luce primigenia non è una luce emessa dagli astri. Che cos’è allora? È qualcosa di speciale che permette all’uomo di vedere mi sof haolàm ve’ad sofò letteralmente dalla ‘fine del mondo alla sua fine’. Cioè di avere una visione d’insieme e profonda del mondo. Ma poi questa Luce scompare, non se ne parla più. Secondo il midràsh, questa luce è stata nascosta, ‘Or haGanuz’. Perché è stata nascosta? Perché l’uomo potrebbe farne un cattivo uso. La Luce che permette di vedere tutto è uno strumento potentissimo, di conoscenza, straordinariamente importante ma anche pericoloso. La conoscenza può essere usata male. E questo è un altro elemento importante presente nel racconto biblico, cioè l’idea che la conoscenza possa essere estremamente positiva ma possa anche essere usata male. A questa idea è legata anche una interpretazione del peccato del primo uomo. L’idea che la conoscenza ha una faccia positiva (‘dare i nomi’) e una negativa. Da una parte l’uomo deve conoscere, dall’altra sorge il problema di come l’uomo può usare la conoscenza, anche a fini distruttivi. Questo è un tema fondamentale della storia dell’umanità ed è diventato fondamentale in maniera drammatica nel nostro secolo, in realtà. Non è mai stato così attuale. Io credo che questo midràsh sia molto più facile da comprendere oggi di quanto potesse esserlo nel Medioevo. L’idea della distruttività della conoscenza noi oggi la possiamo capire benissimo. Abbiamo fatto progressi enormi ma con tutte le conseguenze potenzialmente negative di una conoscenza così avanzata.
I due elementi della conoscenza e della conservazione del creato sono quindi strettamente correlati. La conoscenza è fondamentale e necessaria anche al rapporto con Dio. Con l’ignoranza non si va da nessuna parte; questo è fondamentale nella tradizione ebraica. C’è un passo fenomenale dei Pirké Avòt che dice ‘un ignorante non può essere chassìd. Non sa ‘come si fa’ la religiosità ha necessità di conoscenza, di studio. Lo studio nella tradizione ebraica viene prima di tutto.
D’altra parte, l’altra faccia della medaglia, è che si può usare male la conoscenza».
Quali sono dunque i limiti all’uso della conoscenza?
«C’è un commentatore importante della Torà che è Itzhak Abravanel che quando commenta il peccato del primo uomo, dice sostanzialmente che il peccato consiste nell’essersi allontanato dallo stato naturale per entrare in una condizione non naturale. La conoscenza del bene e del male rappresenterebbe l’allontanamento dalla condizione naturale. Abravanel, importante uomo politico in Spagna, Portogallo, Italia meridionale, come risultato della sua conoscenza del mondo delle corti sviluppò un odio profondo per la politica e nella politica identifica lo ‘stato non naturale’ introdotto proprio dal peccato del primo uomo.
Questa non è però l’interpretazione prevalente nella tradizione ebraica, dove è previsto invece l’intervento dell’uomo sulla natura. ‘Crescete, moltiplicatevi, riempite la terra e conquistatela’, viene detto all’uomo. Secondo Ramban, questo ‘conquistatela’ indica l’intervento di civilizzazione, l’intervento umano che trasforma la natura. L’idea è che questo intervento sia necessario. Non deve solo conservarla, ma viene dato all’uomo un compito sostanzialmente creativo. La narrazione della creazione del mondo si conclude con un passo molto famoso perché lo ripetiamo nel Kiddùsh di Shabbat ‘… Ashèr barà E-lohim la’asot’. ‘La’asot’ – per fare – è assolutamente incomprensibile preso così, va tradotto ‘perché l’uomo faccia’. In realtà il mondo è volutamente imperfetto, non completo, perché l’uomo possa intervenire creativamente per completare la creazione. Esiste un compito dell’uomo; questo è un altro elemento fondamentale. Questo differenzia l’ebraismo da alcuni movimenti ecologisti estremisti che sostengono che l’uomo sia sullo stesso piano degli animali e di ogni altra creatura del pianeta. No, per la tradizione ebraica l’uomo da una parte è elemento della natura come gli animali e le piante (lo afferma per esempio un grande commentatore medievale, Rabbi Yosef Caspi), e non deve quindi peccare di superbia ponendo se stesso al centro dell’universo; d’altra parte però l’uomo ha un compito e un ruolo particolare, di partner di Dio nella creazione del mondo.
Il grosso problema è quello del limite di questo compito. L’uomo rischia di essere distruttivo. Può usare male la capacità e il compito che gli è stato dato.
La tradizione ebraica indica una serie di limiti, per esempio quello posto dalla mitzvà del ‘non distruggere’. Riguarda il rapporto con il mondo in generale, ed è il divieto espresso di non distruggere inutilmente qualcosa. Buttare via il cibo è un esempio: va conservato, riutilizzato, e per alcuni cibi, come il pane, ci sono regole ancora più dettagliate.
È un principio fondamentale dal punto di vista del rapporto con l’ambiente: noi abbiamo il dovere di costruire e di non distruggere. Anche se è di difficile interpretazione e applicazione, il principio c’è. Ha un forte valore simbolico. Per esempio c’è il divieto, spesso citato in occasione di Tu Bishvat, di distruggere, nel corso di un assedio, gli alberi da frutto. È un limite ideale, simbolico se si vuole ma importante; anche nella guerra, il momento distruttivo per eccellenza nella storia dell’uomo, devo tenere presente la vita e cercare di salvaguardarla.
Un famoso midràsh racconta dell’imperatore Adriano, pronto per andare in guerra, che incontra un vecchio che pianta un carrubo, albero che dà frutti solo dopo molti anni. Adriano chiede all’uomo perché stia piantando un albero di cui non potrà raccogliere i frutti. La risposta è ‘lo faccio per i miei figli e i miei nipoti’. Questa è l’essenza dell’ebraismo, lavorare per i figli e i nipoti.
Noi abitiamo un mondo che dobbiamo conservare e sviluppare per dare una prospettiva ai nostri figli e ai nostri nipoti. Questa è un’idea molto presente nella tradizione ebraica sia dal punto di vista del rapporto con la natura sia da quello culturale, identitario, spirituale. Noi lavoriamo per il futuro. Abbiamo poi il dovere di conservare la nostra salute e di non fare cose dannose per la salute; ci sono alcune regole della kashrùt solo destinate alla salvaguardia della salute. Abbiamo il dovere di proteggere noi stessi e gli altri. La domanda, il grande problema che dobbiamo affrontare, è come possiamo generare progresso, salvaguardando allo stesso tempo la salute e il mondo».