di Ruth Migliara
Il racconto degli accadimenti storici è importante quanto la storia stessa. Può restituire dignità a eventi altrimenti dimenticati. Può farne occasione di riflessione morale. Può mistificare o condannare all’oblio. Ma può soprattutto restituire dignità ai morti e insegnarne il valore ai vivi.
Tanto si è parlato di Shoàh, ma di recente si è imposto più che mai all’attenzione pubblica il tema della storiografia in merito. Sempre più urgente, di fronte a prese di posizione negazioniste, è l’interrogativo sulla deontologia e sulle modalità del racconto storico in materia di Olocausto.
Incontriamo Michele Sarfatti, che, direttore dal 2002 della Fondazione Centro di Documentazione Ebraica Contemporanea (CDEC) di Milano, si occupa di storia contemporanea con particolare riguardo alle vicende degli ebrei nell’Italia fascista. Ecco l’intervista.
Come si sono evoluti gli studi storici negli ultimi anni?
“Non possiamo parlare di nuove posizioni storiografiche sulla Shoah,- risponde Sarfatti- ma piuttosto di un continuo mettere a fuoco vicende poco note e studiate. Sempre più diffusa e cristallizzata nell’opinione comune è l’idea che l’Olocausto sia essenzialmente Auschwitz e i campi di concentramento, frutto deleterio, nei metodi e nell’organizzazione, del progressivo affinarsi degli strumenti della “modernità”. Invece pochi sanno che quasi la metà degli eccidi avvennero nell’Europa Orientale, sotto forma di uccisioni di massa, in radure e boscaglie nascoste, secondo una modalità primitiva e arcaica in cui l’uomo uccide l’uomo avendolo di fronte a sé. E’ su questo aspetto dello sterminio che, sempre più, si focalizzano le ultime ricerche storiche.”
Parallelamente a questo approfondimento tematico, continuano i dibattiti storiografici sul processo che ha portato alla decisione finale del genocidio degli ebrei. Ci si interroga se vi fu un ordine generale o se invece vi fu un crescendo progressivo di ordini in merito.
“Per alcuni – ci spiega Sarfatti- vi fu un preciso ordine di Hitler tra il settembre e novembre del 1941. Numerosi infatti furono in quelle settimane gli incontri tra il dittatore e Himmler. Tuttavia, per altri, sarebbe più credibile un delinearsi graduale della politica nazista di sterminio, attraverso un accumularsi di ordini successivi dati nel corso di più mesi.”
In che modo la trattazione storica dell’Olocausto ha risentito del peso morale di quelle vicende? Ovvero: in che modo il “racconto” della Shoà è stato influenzato dall’orrore di quegli eventi?
“Il rilievo morale della Shoah è manifesto nel numero elevato degli studiosi che vi si dedicano. Tuttavia – continua Sarfatti– la ricerca non risponde al mero fine di condannare, ma anche a quello di comprendere. Esiste una volontà di capire non cosa, ma come è successo. Molti sono gli studiosi tedeschi a porsi questa domanda e, per la maggior parte, si tratta di non ebrei. La Germania fa i conti con il proprio passato in un modo più serio. In Italia invece sono più rari gli storici che si specializzano in questi studi. Manca infatti ad esempio un’analisi accurata degli archivi dei ministeri degli esteri, per comprendere cosa si dicesse nelle varie sedi diplomatiche.”
“Le nuove generazioni si confrontano invece in un modo del tutto nuovo con le tematiche della Shoà. Sono generazioni per cui la rievocazione storica delle vicende dell’eccidio degli ebrei è un fatto acquisito. Un Giorno della Memoria dedicato a un preciso gruppo oggetto di sterminio è in realtà un fatto nuovo nella società occidentale, ma i giovanissimi non hanno vissuto l’evoluzione e il processo che vi ha portato. Non vivono la possibilità di ricordare come una conquista, ma vi si misurano come qualcosa di ovvio e assodato. Serve perciò nei loro confronti un’attenzione ulteriore da parte dei memori dell Shoà. Agli ebrei tocca un duplice ruolo: quello di non essere esclusivi nella memoria e di rendersi archetipi di tutte le vittime dell’umanità, in un discorso che, nei toni particolari, racchiuda l’universale valore del ricordo”.
Alcuni personaggi, come la scrittrice americana Cynthia Ozick, parlano del rischio di una “poeticizzazione mitizzante” che offende la verità sull’Olocausto, ma tuttavia Michele Sarfatti ci risponde cauto in merito. “La rievocazione storica è uno strumento di per sé neutro. Dipende dall’uso che se ne fa. In questo hanno un ruolo fondamentale gli educatori. Sono le famiglie e gli insegnanti che, in una prima fase, devono farsi guide di una corretta lettura della storia. Ma poi, una volta diventati adulti, la responsabilità è nostra, che dobbiamo educare noi stessi a un corretto utilizzo degli strumenti storici.”.
Musei ed esposizioni hanno sicuramente un ruolo fondamentale nel perpetuarsi della memoria. Tuttavia esistono dei rischi di “mummificazione” del ricordo storico, che può diventare qualcosa di lontano ed estraneo racchiuso nella pagine polverose di un libro.
“Esiste d’altronde il pericolo opposto di non poter comunicare e raccontare cosa sia successo – specifica Sarfatti – . I musei sulla Shoà sono una cosa nuova, nata negli anni 80’. Una sfida al concetto stesso di museo, come luogo del bello. Si tratta infatti di luoghi desposizione dell’orrore e in questo compito è necessaria una delicatezza particolare. Bisogna parlare di uccisioni di massa, rispettando la specificità del singolo. Ma soprattutto bisogna parlare in modo dignitoso di una spoliazione della dignità. Un intento difficile, ma realizzabile.”
Durante gli eccidi di massa dell’Europa Orientale, uomini e donne erano, ad esempio, fatti spogliare ed esistono numerose fotografie che ritraggono persone in questo terribile contesto. Spesso ci si chiede se sia giusto mostrare queste immagini o se si violi in questo per la seconda volta la dignità delle persone. Per Sarfatti esiste un equilibrio tra il silenzio e l’iper esposizione mediatica di questi documenti. Un museo riesce nell’intento di produrre Storia solo se rispetta in ciò il valore dell’uomo.
Quale ruolo possono avere la ricerca e la commemorazione storica nell’arginare l’insorgere di nuovi atteggiamenti antisemiti?
“E’ fondamentale che la memoria e gli studi storici contribuiscano a ripristinare il vero e la consapevolezza. L’ostilità anti-ebraica permea purtroppo ancora oggi la società, ma il fatto più grave è che di questo ci si renda poco conto. Usiamo con tranquillità estrema il termine “Sabba” per designare gli incontri rituali tra streghe, senza renderci conto che, nella sua derivazione dalla parola ebraica “Shabbat”, contiene in sé già un forte pregiudizio antisemita.”
E’ estremamente importante perciò che si continui a contribuire a questa acquisizione di consapevolezza attraverso la cultura e la sua diffusione. E’ una battaglia lunga e faticosa e stupisce il continuo manifestarsi di atteggiamenti negazionisti, non tra le masse, ma tra coloro che, in quanto presunte elite intellettuali, dovrebbero farsi guida e strumento di verità.
Sono molti i fatti recenti che vedono come protagonisti professori e maestri di scuola che difendono una posizione storicamente insostenibile – e moralmente disdicevole- per cui lo sterminio degli ebrei sarebbe un’invenzione storica. Negare che una tragedia sia avvenuta significa rinnovarla ogni giorno e abbiamo il dovere di difendere il vero storico.
“E’ estremamente difficile in questo – dice Sarfatti- mediare tra obbligo morale di difendere la verità e rischio di esasperare atteggiamenti censori che possano dare ulteriore visibilità al fenomeno negazionista. Sarà estremamente difficile in questo creare degli strumenti giuridici che, nella tutela della libertà di pensiero, difendano il ricordo delle vittime. Ma, quanto meno, i soldi pubblici non devono sostenere, neanche indirettamente, iniziative, convegni o figure che, nelle istituzioni educative, siano portatrici di queste posizioni offensive. Difficile e delicato stabilire invece la modalità di intervento correttivo nei confronti di queste da parte dello Stato”.