Sono stata ad Auschwitz.

Mondo

La riflessione di una shomer.

“I’m still confused… but I feel we don’t have the privilege of ‘being confused…’, so i must turn this confusion into a doing…



Sono stata ad Auschwitz. Sono stata a Majdanek. Sono stata a Treblinka. Me lo ripeto più volte, come per riuscire realmente a rendermene conto.


Sono stata lontano, in luoghi discosti dall’umanità o forse, semplicemente, in “non luoghi”. Mi ci sono ritrovata senza avere neanche realmente il tempo di accorgermene: un’ora prima sei in una calda stanza d’albergo, un’ora dopo ti ritrovi in un luogo gelido, che scardina strepitosamente le tue certezze umane. Spesso ho cercato di prefigurarmi cosa significasse trovarsi in un campo di concentramento, e non avevo mai neanche lontanamente sfiorato nessuno dei pensieri e delle sensazioni che ho provato trovandomi ad Auschwitz, a Majdanek, a Treblinka.


Ho visto i campi da lontano, dal finestrino del nostro autobus, li ho visti nella loro assurda precisione, nel loro ergersi in lunghe distese bianche e vuote, vuote di umanità. Ho visto uno spettacolo cui non avrei mai voluto assistere nemmeno come pubblico; mi domando cosa abbia significato esserne i protagonisti. Ho visto i campi anche da vicino, ho camminato tra le baracche, vicino al filo spinato, sotto le torrette, mi sono fermata accanto ai forni, nelle camere a gas. Ho camminato nel freddo di quelle strutture, con la nausea e gli occhi increduli, con anima e mente lontane, incapaci di comprendere la realtà che stavo visitando. Anche in seguito sono tornata nei campi; ci sono tornata con il pensiero, ho visto ripresentarsi quei luoghi ormai divenuti irrimediabilmente topici, fotografie buie hanno continuato a rivivere nei miei pensieri come a ribadirmi una volta di più che si, esiste Auschwitz, esiste Majdanek, esiste Treblinka. Ho sentito nel più profondo dell’anima la pesantezza di vivere queste evidenze come donna, come appartenente al genere umano. Ciò che più mi risultava opprimente era accettare che tali progetti fossero stati fatti dai miei simili; ancora oggi non trovo il modo di ammettere che questa è la mia specie, questa la nostra indole, questi i nostri impulsi.



La frase di una mia compagna mi rimbomba senza clemenza nelle cavità della mente: “Sono qua perché non c’è più niente, non perché ci sia qualcosa…”. Non avevo ancora mai pensato che abbiamo fatto questo viaggio per andare a vedere quello che NON è rimasto, siamo andati a vedere quello che un tempo era e che oggi non è più. Abbiamo sentito racconti di persone che sembravano appartenere alla storia più remota, talvolta pareva come di essere in un museo di storia antica, di visitare veramente luoghi e memoriali di quello che i nazisti avrebbero voluto diventasse “un popolo estinto”. Eppure quelli che sembravano racconti di fantascienza, di circostanze immaginarie, non erano altro che la memoria di anni crudi, ma estremamente vicini.


È difficile sopportare queste evidenze; è difficile farlo come uomini. Fin quasi alla fine, l’unica cosa che mi ha rassicurato era riunirci ogni volta stretti e commossi nelle nostre cerimonie, stanchi di passare in rassegna quei panorami, ma orgogliosi di poter essere lì tutti insieme a dare prova del fallimento del folle intento di uomini del passato; eravamo lì a testimoniare che siamo ancora vivi, forti, uniti. Eravamo lì, in piedi, col freddo che si insinuava nelle ossa fino ad arrivare all’anima. Ogni tanto mi sono domandata perché fossi andata a riscoprire quelle imbarazzanti verità. E spesso, pur cercando con affanno e volontà, non ho trovato risposte. Il più delle volte solo nuove e spaventose domande. Il più delle volte sconcerto e disillusione. Ma conseguentemente sono arrivata a chiedermi cosa avrei fatto solo con nuovi quesiti, con dubbi sempre più opprimenti, con paure insopportabili e tormenti di enigmi irrisolti e all’apparenza ancora irrisolvibili.



Poi siamo stati a Varsavia: davanti al monumento di Mordechai Anilewich, di fronte alla Mila 18, alle case della resistenza, nell’orfanotrofio di Janus Korzac. Ricordo la giornata a Varsavia come un tepore, una dolce consolazione, una tenera spinta all’ottimismo, alla determinazione, all’attivismo. Varsavia è stato il luogo dove ho scoperto, o forse mi sono solo ricordata, che l’animo umano è pieno anche di qualcosa di straordinariamente bello, forte, ammirevole, confortante. Nelle vie di quella città, la vergogna si è tramutata in fierezza, lo sconcerto in determinazione, la stanchezza in energia. A Varsavia, come del resto in tutto il viaggio, sono stata enormemente felice di essere attorniata da shomrim. Con un’unica differenza: non ho cercato i miei chaverim per scambiare un abbraccio, né per incrociare un tiepido sguardo solidale, né per cercare una mano a darmi forza. A Varsavia ho cercato la complicità di ogni mio compagno, per poter condividere con ognuno di loro l’orgoglio e la gioia, ho voluto cercare sorrisi ingenui simili al mio per diffondere quell’ammirazione da cui ero pervasa, come una bambina davanti al suo grande eroe; ugualmente io piccola shomeret davanti alla grande statua di Mordechai. Mordechai che era giovane come noi; Mordechai che era ebreo come noi; Mordechai che era shomer esattamente come noi . Mordechai che era attorniato da compagni della sua stessa tempra, aveva al suo fianco Yitzhak, Tosia, Joseph, Shmuel, Zivia, Jurek, Frumka, Mira e chissà quanti altri…



Alla cerimonia di chiusura del Masa, quella davanti alla Mila 18, per una volta non ho volto lo sguardo lontano, nel nulla, e nemmeno ho guardato a terra assorta: in quell’ultimo mifkad ho alzato gli occhi verso i miei compagni, li ho osservati tutti, uno per uno e ho pensato: anch’io sono attorniata da compagni. Anche io come Mordechai ho il raro privilegio di non essere sola.

Sono confusa, sono turbata e sono anche spaventata; però ho attorno a me amici che sono la forza per superare queste esitazioni, sono vicino a persone che, come me, hanno il desiderio di cambiare.


Con questi pensieri, mi sono disposta ad assistere alla cerimonia: ho ascoltato le parole dell’ultima lettera di Anielevich, e ho ascoltato discorsi di shomrim di oggi, che parlavano delle nostre responsabilità moderne, dei nostri ruoli e dei nostri compiti. Allora ogni cosa mi è parsa più chiara: in quel luogo, più che ogni dove, era nostro dovere essere all’altezza delle persone che stavamo commemorando, portare avanti le loro lotte, le loro idee, il loro coraggio, i loro desideri e, più di tutto, il loro movimento. Mordechai, Tosia, Joseph e tutti gli altri non andavano soltanto commemorati, ma era necessario renderli onore prendendoli come modelli, avendoli come riferimento e stimolo per riflettere sui nostri obiettivi, e trovare la passione per agire. E dunque ho compreso che, anche se ero – e sono ancora – confusa, era mio dovere trasformare quella confusione in qualcosa di attivo…