di di Giorgio Secchi
Un convegno al Parlamento italiano affronta il tema del rapporto tra Israele e il mondo arabo in fermento
In questi mesi, sulla sponda meridionale del Mediterraneo, infuria la rivolta con nuovi focolai che si accendono ogni giorno, in una sorta di contagio, e le consuete chiavi di lettura sono diventate inservibili. L’attenzione degli osservatori si è finora concentrata sulla natura dei movimenti di protesta che sono riusciti a far cadere i regimi di Mubarak in Egitto e Ben Ali in Tunisia. Il timore è che in questo cambio di stagione possano prendere il sopravvento leader estremisti islamici, anche se finora non si sono viste le consuete scene di bandiere americane o d’Israele date alle fiamme. La questione è in ogni caso cruciale per il futuro di Israele. Di qui la necessità di superare al più presto quel sentimento di nostalgia per il rais egiziano Mubarak di cui si è fatto interprete il premier Benjamin Netanyahu in un’intervista alla CNN, e di dotarsi di nuovi strumenti per interpretare gli scenari che si stanno configurando in Medio Oriente. E capire se Israele, unica democrazia della regione, rischi di trovarsi adesso più isolata di prima, nella morsa di Paesi tradizionalmente ostili, o se invece le rivolte -alimentate dai social network (Facebook e Twitter) e dalle tv satellitari- abbiano nella propria origine i semi di una nuova stagione di riforme e di apertura alla democrazia. Su questi e altri temi si è svolto a Roma il convegno Israele di fronte alla rivoluzione dei paesi musulmani: speranza o pericolo, promosso con apprezzabile tempestività dall’associazione Summit, presieduta da Fiamma Nirenstein, vicepresidente della Commissione Esteri della Camera.
Tra i relatori era annunciato Benny Morris e lo storico israeliano, pur non potendo essere presente, non ha fatto mancare il suo contributo: “Anche se guardiamo con grande interesse al ‘vento di libertà’ nel mondo arabo, non abbiamo chiarezza sul fatto -ha ammesso- se queste forze rivoluzionarie siano democratiche o no. Ma anche se lo fossero non è chiaro se questo finisca per favorire un accordo con Israele. Abbiamo visto la folla gridare nelle strade ‘vogliamo democrazia’ ma anche ‘vogliamo distruggere Israele’. Possono quindi volere entrambe le cose. Facciamo l’ipotesi che i Fratelli Musulmani, dopo libere elezioni, prendano il potere in Egitto, oppure diventino forza politica determinante in una coalizione di governo. Di sicuro sarebbe una grande opportunità per Hamas a Gaza, ma sarebbe lo stesso per l’Anp di Abu Mazen? In ogni caso -ha concluso Morris- il Medio Oriente senza Gheddafi è un posto migliore, così come lo è senza Saddam Hussein”.
Un altro relatore, il sociologo Khaled Fouad Allam è invece sembrato più preoccupato circa i futuri assetti che si verranno a realizzare nell’area: “Il mondo arabo sta entrando in un nuovo ciclo della sua storia, grazie alla spinta di una popolazione che per il 70% ha meno di venticinque anni. La crisi economica globale -ha spiegato- ha avuto effetti devastanti per neolaureati e diplomati che non trovano lavoro e non credono più al radicalismo religioso islamico, attratti semmai dai nuovi strumenti della rete che li ha messi in contatto col mondo facendo emergere in loro, sia pure in modo confuso, una domanda di democrazia. Temo però -ha aggiunto-, che entro sei mesi la situazione in quei Paesi possa subìre un processo di normalizzazione, con una sorta di ‘via turca’ che porti a far entrare nello spazio democratico i partiti religiosi, saldandoli in un accordo con i poteri forti, come l’esercito”. Di qui il rischio, secondo Allam, che si vada verso una sorta di islamo-nazionalismo, una fusione tra l’ideologia islamista e lo spirito nazionalista: un serio pericolo per Israele, alle prese con Paesi confinanti che ignorano le regole della democrazia come grammatica delle relazioni internazionali e con la politica estera fin qui fallimentare dell’Unione Europea. Di qui l’esortazione rivolta a Bruxelles a dar vita a un Consiglio dei Paesi del Mediterraneo, per occupare uno spazio politico in un’area strategica e contribuire all’educazione delle nuove classi dirigenti arabe alla democrazia.
Torna l’idea del califfato
Un meeting, quello avvenuto alla Camera a Roma, davvero interessante, specie per gli interventi degli esperti stranieri. Come quello di Pinhas Inbari, analista del Jerusalem Center for Public Affairs, che ha centrato il suo intervento sui riflessi delle rivolte nel Mediterraneo sui palestinesi. Il rischio, a suo avviso, è che il governo di Abu Mazen a Ramallah abbia perso di legittimità. I suoi legami storici con i vecchi regimi di Mubarak e Ben Ali sono oggi una pesante palla al piede per ogni ipotesi di leadership nell’area, a differenza di Hamas, che nei Fratelli Musulmani, candidati ad assumere un ruolo di governo in Egitto, potrebbe trovare un alleato decisivo per i suoi disegni di egemonia del popolo palestinese. Hamas poi, secondo Inbari, non è più interessato a conquistare il potere a Ramallah ma piuttosto ad aprire la frontiera con l’Egitto per saldarsi con i Fratelli Musulmani e dare vita a una sorta di Califfato, un vecchio sogno che risale ai tempi dell’Impero ottomano, che potrebbe raggruppare molti Paesi della sponda sud del Mediterraneo, la cui egemonia sarebbe quindi a rischio, affidata all’esito della disputa tra la moderata Turchia di Erdogan e il temuto Iran di Ahmadinejad.
Per Yossi Kuperwasser, direttore generale del Ministero Israeliano per gli Affari Strategici, si tratta invece di valutare in modo positivo l’ondata di democratizzazione che sta investendo il Medio Oriente ma non ha nascosto la sua preoccupazione: “Nessuno ha bruciato le nostre bandiere, è vero, ma nessuno ha nemmeno detto ‘miglioriamo i rapporti con Israele’.
C’è per esempio -ha ricordato-, il problema del riconoscimento reciproco. Noi abbiamo detto che i palestinesi devono avere un loro Stato mentre loro sono ancora riluttanti a riconoscere questo diritto a Israele. Hamas può contare, lo si è visto a proposito di armi arrivate da Teheran, sull’aiuto di forze radicali in campo, che hanno la capacità di controllare il mondo arabo dove nel corso del tempo hanno fatto passare i loro valori. Il nuovo contesto nell’area potrebbe favorire iniziative che mirano a cambiare gli attuali equilibri, come ha dimostrato la neutralità del governo provvisorio egiziano verso il passaggio nel Canale di Suez di due navi di guerra iraniane. Non avveniva dal 1979, dai tempi di Khomeini: un fatto gravissimo”. Di qui la necessità, per Kuperwasser, di un ruolo dell’Occidente, sul piano economico e non solo militare, se non si vuole, ha concluso, che “invece di rivoluzioni democratiche si assista a una rivoluzione islamica”.
E l’Iran ne approfitta
Per concludere, Fiamma Nirenstein ha dichiarato, “siamo ad un bivio: bisogna vedere se questa lotta antisraeliana, uno dei principali problemi del -e nel- mondo arabo, trovi la strada per quietarsi. Potrebbe essere una grande occasione. Del resto Hamas e Hezbollah hanno difficoltà con i loro popoli: basti pensare alle ultime manifestazioni represse a Gaza City e in Libano. Il fatto concreto -ha osservato Nirenstein-, è che l’Iran approfitta della confusione in Medio Oriente e continua ad agire per alimentare l’estremismo politico. Negli ultimi giorni, da Gaza, sono stati lanciati ben 51 missili su Israele. Prima c’è stato l’orrendo massacro della famiglia israeliana, sgozzata. Eppure il mondo non ha battuto ciglio. Ecco -ha concluso- organizzare questa conferenza è servito anche a ricordare che Israele è l’unica democrazia dell’area, si trova sulle sabbie mobili e non si sa cosa può succedere. Occorre lanciare un grido di allarme sui rischi che corre. L’Europa deve saperlo”.