di Giovanni Panzeri
I tentativi di incrementare le relazioni economiche con l’accordo di libero scambio si scontrano con il veto americano:
gli Stati Uniti temono la cessione di tecnologie militari
Cina e Mediterraneo, il nuovo celeste impero e il Medioriente, Israele e il Dragone. E il profumo del fior di loto che si espande sulle coste, da Rosh HaNikrà a Ashkelon. Esiste una penetrazione degli interessi economici cinesi nello Stato Ebraico? «Costruire infrastrutture di alta qualità, resistenti, sostenibili e a prezzi ragionevoli permetterà a tutte le nazioni di sfruttare al meglio le proprie risorse integrandosi in un modello di sviluppo comune. (…) La Cina collaborerà con tutti i partner disponibili a creare un network comune di ferrovie, porti, oleodotti…», ha dichiarato nel 2019 il presidente cinese Xi Jinping, descrivendo quella che viene definita la “nuova via della seta” cinese (Belt and Road Initiative in inglese).
Adottata dal governo cinese nel 2013, la Belt and Road Initiative (BRI) è un’iniziativa geopolitica di ampio respiro orientata a espandere l’influenza cinese a livello globale, dapprima finanziando la costruzione di infrastrutture funzionali a rendere più fluido il commercio tra i vari continenti per poi focalizzarsi su accordi bilaterali e investimenti nei settori, ad esempio, dell’hi-tech, della cultura e della sicurezza domestica e internazionale. Israele non è, ad oggi, un sottoscrittore ufficiale della BRI, ma nel corso dell’ultimo decennio è stato oggetto di investimenti e azioni diplomatiche e commerciali che possono essere inserite nel contesto di questa iniziativa. Il netto miglioramento delle transazioni commerciali, diplomatiche ed economiche tra Cina e Israele, avvenuto tra il 2013 e il 2019, è stato seguito da un parziale raffreddamento nel corso degli ultimi quattro anni, causato da pressioni statunitensi e altri fattori.
Questa dinamica descrive la complicata situazione diplomatica dello Stato ebraico. Israele sta cercando di seguire una strategia pragmatica che gli permetta da una parte di mantenere una “relazione speciale” con Washington perseguendo i propri obiettivi strategici (come nel caso del conflitto con l’Iran, suo principale rivale nella regione, apertamente sostenuto dalla Cina), dall’altra di portare avanti il più possibile i propri interessi economici aprendosi ai finanziamenti e ai mercati cinesi. Il tutto in una situazione di crescente polarizzazione internazionale tra le due potenze, che rischia di danneggiare le prospettive di settori d’avanguardia dell’economia israeliana, come l’hi-tech, e si va a sommare a una crescente instabilità politica interna.
Relazioni Sino-Israeliane, un riassunto
In realtà i rapporti tra Israele e Cina hanno una storia lunga e sono iniziati nel corso degli anni ‘80 quando Israele cominciò a vendere segretamente armi e tecnologie militari alla Cina, incoraggiato dagli Usa in chiave anti-sovietica, almeno secondo il professore di scienze politiche e studi dell’Asia Orientale dell’Università di Haifa Yitzak Schichor.
In seguito alla caduta dell’Unione Sovietica e all’apertura formale delle relazioni diplomatiche tra la Cina e lo Stato ebraico, nel 1992, l’atteggiamento statunitense verso questi scambi cambiò radicalmente, nel timore che la Cina si appropriasse di sistemi d’arma e tecnologie, magari sviluppate in cooperazione dagli Usa e Israele, che le potessero fornire un vantaggio nell’eventualità di un conflitto con gli americani.
In particolare la rottura dell’accordo tra Israele e Cina sul PHALCON del 2000 e di quello sui droni HARPY nel 2005, su pressione statunitense, costrinsero Israele a sottoporre ogni futuro accordo sulla vendita di armi alla revisione di Washington. Questo comportò lo spostamento delle relazioni Sino-Israeliane su un piano prettamente economico, che conobbe un forte sviluppo a partire dal 2013, l’anno in cui, pochi mesi dopo il lancio della BRI da parte cinese, il primo ministro israeliano Netanyahu decise di fare delle relazioni con la Cina una delle priorità del suo terzo mandato di governo. Gli anni successivi avrebbero visto una spiccata crescita negli scambi commerciali tra le due nazioni, accompagnati da massici investimenti cinesi nel settore hi-tech dell’industria israeliana e nella costruzione di alcune infrastrutture critiche.
Per un accordo di libero scambio
Le relazioni commerciali tra Cina e Israele sono tuttora in costante crescita: ad oggi la Cina è il primo partner commerciale di Israele in Asia e il secondo, dopo gli Stati Uniti, a livello mondiale.
Il commercio, almeno per quanto riguarda l’export cinese, è l’unico tra i tre settori chiave delle relazioni Sino-Israeliane a non avere subito battute d’arresto a causa di pressioni americane o altri fattori, e consiste principalmente nello scambio di merci (il commercio in servizi alle imprese, di solito un elemento importante dell’export israeliano, è trascurabile). Secondo i dati raccolti dall’Institute for National Security Studies (INSS), gli scambi commerciali tra le due nazioni sono aumentati del 50% tra il 2020 e il 2022, raggiungendo un valore totale di circa 17 miliardi e consistono prevalentemente in esportazioni cinesi, mentre l’aumento di esportazioni israeliane in Cina è molto più contenuto. L’enorme aumento delle esportazioni cinesi è stato condizionato anche dalla pandemia ed è dovuto principalmente a tre fattori: l’aumento di prodotti ordinati da siti cinesi, considerati meno costosi e quindi più adatti a fronteggiare il salire del carovita; l’aumento degli ordini di apparecchiature elettroniche, adatte allo smart-working, anche attraverso rivenditori israeliani; la notevole diffusione nello Stato ebraico di veicoli cinesi, in particolare macchine elettriche. Dal canto suo Israele esporta in Cina soprattutto componenti elettroniche, ma l’export in quel campo è stato pesantemente limitato dalle pressioni statunitensi. Gli anni del Covid hanno tuttavia visto un parziale aumento nelle esportazioni israeliane di materiale medico e sostanze chimiche. Il progressivo miglioramento delle relazioni commerciali è stato accompagnato dal lancio, nel 2016, di trattative per arrivare a un vero e proprio accordo di libero scambio. L’accordo dovrebbe prevedere l’aprirsi dei mercati cinesi alla tecnologia agricola israeliana, in cambio dell’abbattimento dei dazi sui veicoli esportati dalla Cina nello Stato ebraico.
È significativo che le trattative siano riprese proprio quest’anno (l’ultimo incontro risale al 2019), in un momento che potrebbe essere descritto come di relativo raffreddamento delle relazioni Sino-Israeliane, dovuto alle pressioni esercitate dagli Stati Uniti per limitare gli investimenti cinesi nel settore hi-tech e nel settore delle infrastrutture.
Il settore hi-tech
La possibilità di accedere alle conoscenze e ai prodotti hi-tech israeliani è sicuramente una delle principali ragioni che hanno spinto la Cina a tentare di coinvolgere Israele nella BRI, mentre d’altra parte l’accesso all’enorme mercato tecnologico cinese rappresenta un’opportunità per le industrie israeliane.
Secondo i dati raccolti dall’INSS, gli investimenti cinesi nel settore hi-tech israeliano fino al 2020 rappresentano la gran parte degli investimenti cinesi nello Stato ebraico. In particolare, tra il 2007 e il 2020 la Cina ha investito 19 miliardi di dollari nelle imprese israeliane, dei quali 9 destinati al settore hi-tech. La maggior parte degli investimenti nel settore hi-tech proviene da aziende private, che agiscono comunque secondo le direttive nazionali del governo cinese, tra le quali Huawei, Alibaba, Baidu, Haier e Qihoo 360. Sempre secondo i dati raccolti dall’INSS è evidente come gli investimenti cinesi nel settore hi-tech israeliano hanno raggiunto il picco nel 2018 per poi iniziare a calare nel 2019, a seguito degli effetti delle pressioni statunitensi sul governo di Israele.
Infrastrutture
Tra il 2007 e il 2020 la Cina ha investito 6 miliardi di dollari nel mercato delle infrastrutture israeliane, in particolare nel settore dei trasporti e dell’energia, e ha partecipato a decine di appalti per la costruzione e la gestione di infrastrutture critiche. Tra questi progetti i più noti alla cronaca sono la costruzione della prima linea della metropolitana di Tel Aviv e la costruzione e la gestione di un nuovo terminale commerciale nel porto di Haifa, considerato dalla Cina, assieme al più piccolo porto di Ashdod, un importante snodo nel Mediterraneo nel contesto dell’espansione marittima della BRI.
Pressioni americane, rischio sicurezza
Gli Stati Uniti non hanno mai visto di buon occhio lo sviluppo delle relazioni tra Israele e Cina e sia l’amministrazione Trump sia quella di Biden hanno sempre fatto pressione sul governo israeliano affinché aumentasse i controlli sugli investimenti dall’estero, sulla partecipazione di imprese straniere ad appalti e sull’esportazione di tecnologia israeliana in Cina.
Dopo anni di resistenza, come riportato dal Times of Israel, il governo israeliano ha infine ceduto alle richieste instituendo nel 2019 l’Advisory Board for Evaluating National Security Aspects of Foreign Investments entrato poi in funzione l’anno dopo. Il comitato ha teoricamente solo una funzione consultiva, ma di fatto dispone di un enorme potere indiretto, come spiega il report dell’INSS sugli investimenti cinesi nelle infrastrutture israeliane: “Il declino degli appalti destinati a imprese cinesi è un effetto dell’azione del comitato (…) le materie discusse dal comitato impattano direttamente la società israeliana attraverso la stampa, limitando di fatto le opzioni dei legislatori”.
La creazione del comitato in realtà non è dovuta solo alle pressioni statunitensi, ma anche ai contrasti in seno alla società israeliana, creati dalla prospettiva di un aumento dell’influenza cinese, ovvero di un Paese che comunque sostiene attivamente fazioni apertamente ostili allo Stato ebraico, sulla politica israeliana a livello domestico e internazionale. Un Paese che viene sospettato, tra l’altro, di ingaggiare strategie commerciali basate su pratiche sleali, come furti di licenze e attacchi hacker. Infatti, se da una parte le autorità israeliane considerano generalmente le aziende cinesi in modo positivo, visto che svolgono lavori “rapidi, di qualità e a basso costo”, dall’altra queste ultime incontrarono l’opposizione e la critica di diversi esperti di sicurezza, preoccupati per le possibili ingerenze del governo cinese, e quella di organizzazioni di settore come la Israel Builder Association, che ha accusato le imprese cinesi di essere di fatto le estensioni di un governo “che compete slealmente nel mercato delle infrastrutture mettendo a rischio centinaia di aziende israeliane, che impiegano migliaia di dipendenti”.
Sviluppi recenti
Nonostante il recente raffreddamento delle relazioni, Israele continua a cercare di mantenere un atteggiamento aperto verso la nazione che ormai è diventata una dei suoi principali partner commerciali, come testimoniano la recente scelta di Netanyahu di recarsi in Cina in visita ufficiale e la ripresa delle trattative per un accordo di libero scambio. Del resto è assolutamente vero, come sostiene Paolo Salom nel suo recente pezzo su Mosaico, che se Israele non può permettersi di rinunciare alla sua alleanza con gli USA, associandosi a uno Stato che ha sempre supportato concretamente i propri rivali strategici, non può neanche, per ragioni storiche, confidare nel fatto che l’Occidente lo supporterà in eterno. È quindi una strategia sensata per Israele mantenere i migliori rapporti possibili con chiunque sia disponibile, a maggior ragione con la Cina, una nazione che sta diventando sempre più influente nel quadro mediorientale.