Trecentocinquanta attacchi aerei in sole 48 ore: cosa sta facendo l’IDF in Siria e perché?

Mondo

di Sofia Tranchina
Dopo 14 truci anni di cui l’orrore si può soltanto evocare e non comprendere, tra torture e massacri insensati, il popolo siriano si concede di esultare. Ma, in mezzo ai festeggiamenti, i nodi irrisolti, le paure, le rivalità tra etnogruppi e le insidie ancora incombono sul Paese.

Tra questi, i bombardamenti dell’IDF, che nel caos della rivoluzione ha trovato una finestra per condurre la più riuscita operazione di smantellamento delle forze siriane, senza temere di innescare una guerra diretta.

L’IDF stima di aver annientato tra il 70 e l’80% delle capacità militari del precedente regime, con l’obiettivo dichiarato di impedire che – a seguito del crollo delle infrastrutture statali e della ritirata dell’esercito siriano – armi sofisticate abbandonate cadessero in mani sbagliate: Hezbollah, jihadisti, o altri gruppi ostili ancor più pericolosi dei precedenti proprietari.

Con trecentocinquanta attacchi aerei, le IDF hanno colpito obiettivi strategici – basi aeree, depositi di armi, siti di produzione di armamenti e infrastrutture militari – a Damasco, Homs, Tartus, Palmira e Latakia, dove hanno distrutto le quindici navi che componevano la flotta della marina militare siriana.

Quanto è vero che Assad era nemico di Israele e permetteva all’Iran di armare Hezbollah, è anche vero che dei nuovi padroni di casa si sa troppo poco per poter lasciare la sicurezza al caso.

Nei quattordici anni di guerra civile Israele ha dato supporto umanitario, economico e bellico ai ribelli. Nel 2016 ha avviato l’iniziativa umanitaria Operazione Buon Vicino per fornire assistenza ai civili siriani colpiti dalla guerra e a costruire relazioni positive con la popolazione siriana. Sono stati inviati 360 tonnellate di cibo, distribuite 12.000 confezioni di latte artificiale e 1800 pacchi di pannolini, fornite otto automobili e sei muli per le operazioni locali. Sono state costruite due cliniche in Siria, nella zona di Quneitra, e una clinica presso l’avamposto 116 in Israele, e oltre tremila siriani feriti sono stati trattati in ospedali israeliani.

Israele ha anche fornito armi leggere ai gruppi ribelli siriani nel Golan, ufficialmente destinate all’autodifesa, per contrastare l’influenza di Iran e Hezbollah nella regione (lo ha confermato nel 2019 l’ex capo di stato maggiore dell’IDF Gadi Eisenkot).

Lo stesso crollo del regime di Assad è in gran parte stato favorito (oltre che dalla resistenza dell’Ucraina che ha distolto la Russia dalle sue aspirazioni mediorientali) dalla resistenza di Israele, che ha decimato le forze di Hezbollah e messo in crisi la mezzaluna sciita dell’Iran.

Ciononostante, Israele guarda con circospezione i nuovi vicini.

Il leader della coalizione al Fatah al Mubin – che in dieci giorni ha respinto il vecchio regime e “liberato” la Siria – è Abu Muhammad al Jolani (o al Golani, prendendo il soprannome dalle alture del Golan di cui è originario), jihadista salafita dal passato a dir poco controverso.

Alleato di Al Baghdadi nel 2011, al Jolani fondò Jabat al Nusra come costola siriana dell’ISIS e si unì alla guerra civile, non con le aspirazioni democratiche dei ribelli della prima ora, bensì per fondare uno Stato fondamentalista basato sulla sharìa. Come i talebani afghani, le sue milizie non disdegnavano decapitazioni sommarie, torture, e attacchi terroristici.

Nel 2013 al Jolani voltò faccia e giurò fedeltà ad Al Qaida, ma tra il 2016 e il 2017 – per salvarsi dai bombardamenti americani e russi e aprire le porte all’approvazione e ai finanziamenti internazionali – al Jolani abbandonò anche questa, si mise in proprio, cambiò due volte il nome della sua organizzazione (attualmente conosciuta come Hayat Tahrir al Sham) e abbandonò la jihad globale per concentrarsi su obiettivi nazionali. Iniziò a mostrarsi in pubblico in abiti civili, a parlare di moderazione e rispetto delle minoranze, e permise la riapertura delle chiese a Idlib, la regione sotto il suo potere.

Adesso che ha preso il controllo di tutto il Paese, al Jolani ha scelto come nuovo Primo Ministro Mohammad al Bashir, incarnazione di quello che pare essere un nuovo “islamismo moderato in barba e cravatta”, come dice l’inviato del Corriere della Sera Andrea Nicastro. È stata una combinazione di incomprensione e di comportamenti sbagliati ad aver travisato l’Islam, spiega al Bashir, ma i membri di Hayat Tahrir al Sham, «proprio perché islamici», garantiranno «i diritti di tutte le genti e tutti i popoli della Siria». Ma, quando Nicastro gli chiede se sarebbe disposto alla pace con Israele, Bashir ‘ringrazia e se ne va’.

«Questo è l’accampamento dei musulmani. Da qui, veniamo Gerusalemme: sii paziente, popolo di Gaza! Allah uAkbar!», gridano alcuni militanti di Hayat Tahrir al Sham in un video pubblicato da Althawra Network Media, verificato e tradotto da MemriTV. «Così come siamo entrati nella moschea degli Omayyadi a Damasco, entreremo nella moschea di Al Aqsa a Gerusalemme».

Hamas ha espresso il suo sostegno e si è congratulata «con il fratello popolo siriano per il successo nel raggiungere le sue aspirazioni di libertà e giustizia», auspicando che la nuova Siria continui «il suo ruolo storico e fondamentale nel sostenere il popolo palestinese».

Dal canto suo Israele, pur mantenendosi – almeno a parole – aperta all’eventualità di trovare accordi con il nuovo governo siriano, si è preparata al peggior scenario. «Vogliamo relazioni corrette con il nuovo regime» e «non abbiamo intenzione di interferire negli affari interni della Siria», ha dichiarato il premier israeliano Netanyahu, «ma certamente intendiamo fare ciò che è necessario a garantire la nostra sicurezza. Se il nuovo regime permette all’Iran di ristabilirsi in Siria, o consente il trasferimento di armi a Hezbollah, o ci attacca, risponderemo con forza e gli faremo pagare un caro prezzo».

Le truppe dell’IDF si sono dunque schierate al confine tra Israele e Siria occupando anche la zona cuscinetto concordata nell’Accordo di Disimpegno del 1974.

A seguito della guerra del Kippur del 1973 – quando la Siria e l’Egitto attaccarono a sorpresa Israele, che si difese energicamente e vinse – l’Accordo di Disimpegno prevedeva il mantenimento di una Area di Separazione smilitarizzata di circa 235 chilometri quadrati, tra le linee alpha dal lato israeliano (dove è stato allestito il Camp Ziouani) e bravo dal lato siriano (con il Camp Faouar). Prevedeva inoltre che milleduecento soldati della Forza di disimpegno degli osservatori delle Nazioni Unite (UNDOF) effettuassero pattugliamenti regolari e monitorassero eventuali attività militari dai posti di osservazione.

Dopo la ritirata dell’esercito siriano, la situazione sulle strategiche alture del Golan è diventata critica. Da lì, infatti, è facile “dominare dall’alto” Israele; da lì, tra gli anni ’50 e ’60 la Siria lanciava numerosi attacchi contro civili israeliani in Galilea (come quelli che uccisero Ra’aya Goldschmidt al kibbutz Gadot e Kamus Ben Atiya al kibbutz Gonen).

Per prevenire infiltrazioni da parte di gruppi ribelli o jihadisti, che potrebbero aver acquisito tecnologie militari avanzate e droni di sorveglianza per spiare o attaccare Israele, l’IDF ha ritenuto necessario prendere il controllo del monte Hermon, rimasto vuoto.

«Non sappiamo chi ci contrasterà dalla parte siriana, che si tratti di Al Qaida, dell’ISIS, o di altri, quindi dobbiamo essere pronti a proteggere i nostri civili», ha spiegato il membro dell’intelligence Citrinowicz. Va stabilita una «zona di difesa sterile libera da armi e minacce terroristiche nella Siria meridionale», ha rincarato il ministro della Difesa Israel Katz.

Qatar, Turchia ed Egitto hanno accusato Israele di sfruttare violare la sovranità della Siria, e le Nazioni Unite hanno accusato Israele di violare l’accordo di disimpegno. «L’accordo del 1974 è collassato», ha risposto Netanyahu, e in ogni caso si tratterebbe soltanto di una misura temporanea di sicurezza, chiarisce. Gli Stati Uniti ne comprendono la necessità, ma evitano di stabilire le tempistiche di quel “temporaneo” per adattarsi a una situazione in rapido svolgimento. Anche il Regno Unito ha riconosciuto le «legittime preoccupazioni per la sicurezza» di Israele.