di Anna Lesnevskaya
I locali della sinagoga Chabad di Kherson sono stipati di aiuti umanitari dopo la liberazione della città da parte dell’esercito ucraino l’11 novembre scorso. Quello che manca sono le persone. Dopo l’euforia dei primi giorni nella Kherson ritornata ucraina, è arrivata la paura per i continui bombardamenti dalla sponda sinistra del fiume Dnipro. Il 27 dicembre è stato bombardato il reparto di maternità dell’ospedale di Kherson, fortunatamente non ci sono state vittime. Mentre un altro attacco nel cuore della città che ha ucciso almeno 11 persone è arrivato il 24 dicembre, nel settimo giorno di Chanukkà che è coinciso con la Vigilia di Natale celebrato da tantissimi ucraini. Il ministro degli Esteri russo Sergej Lavrov ha paragonato con il consueto cinismo i bombardamenti della città che la Russia rivendica come suo territorio con quelli della Stalingrado occupata dai nazisti. Durante la ritirata i russi hanno colpito le infrastrutture energetiche della città, e Kherson è rimasta per un mese senza luce né acqua, mentre in tanti quartieri manca ancora il riscaldamento.
“Certo che mi capita di aver paura, ma non posso andare via”, racconta al telefono a Mosaico Iosif Itzhak Telenga, che da aprile gestisce il Tempio ebraico di Kherson. “Nel palazzo dove abito è stato colpito un androne ed è morta una donna”. Iosif è un ebreo nato a Kherson che da sempre frequenta la sinagoga e che ora è rimasto nella città da solo, mentre sua famiglia si è rifugiata a Cipro. Tante persone della comunità ebraica locale sono partite durante l’occupazione russa, ma altrettante o anche di più se ne sono andate dopo la liberazione, con l’inizio dei bombardamenti, dice il gestore della sinagoga. Prima della guerra la comunità contava 1600-1700 famiglie (nonni, figli e nipoti) ebraiche secondo l’Halakhah, ora sono rimaste circa 200-300 famiglie. Hanno chiuso anche la scuola e l’asilo nido Chabad. “Come mi piacerebbe che nei corridoi della nostra scuola risuonassero le risate dei bambini”, ha scritto a Mosaico il direttore della scuola ebraica Igor Levin, anche lui partito.
Iosif Itzhak Telenga si ricorda i tempi dell’occupazione, quando la città era bloccata, i beni di prima necessità scarseggiavano e gli aiuti non arrivavano. All’epoca la comunità, grazie ai soldi mandati dai sostenitori, comprava cibi e medicine che riusciva a distribuire ai propri membri. “Abbiamo festeggiato tutte le feste”, dice Iosif con soddisfazione. Ma l’atmosfera in città era piena di tensione, qualsiasi persona poteva essere fermata per strada dai militari russi e non tornare più a casa. Dopo la liberazione della città le autorità ucraine hanno scoperto diversi locali dove venivano torturati gli attivisti pro-ucraini. Tra questi anche il membro della comunità Igor Kovtonjuk che si occupava di volontariato, con altri volontari preparava pranzi e distribuiva le medicine agli anziani. La sua posizione patriottica è stata svelata da un vicino ubriaco, ci racconta Iosif, ed è stato sequestrato dai russi, tenuto per 45 giorni nello scantinato e sottoposto alle torture per poi essere abbandonato in mezzo al nulla poco prima della ritirata dei russi.
Mentre la guerra infervora ancora, il momento di far chiarezza sul fattore tradimento dietro alla resa di Kherson non è ancora arrivato. Ma resta il fatto che il 24 febbraio, quando è iniziata l’invasione russa, la città fu abbandonata a sé stessa, mentre le forze di sicurezza erano fuggite. Con la liberazione della città è partita la caccia ai collaborazionisti, talvolta istigata proprio da chi ha lasciato Kherson nel momento critico, e anche la comunità ebraica ne è stata investita. Il consigliere comunale e imprenditore locale Ilia Karamalikov è ora in prigione nella città di Kryvyi Rih, sotto processo con l’accusa di tradimento di Stato e rischia il carcere a vita. Karamalikov è ebreo e cittadino israeliano, oltre ad essere un grande amico e sostenitore della comunità di Kherson e del rabbino della città Yoseff Itzhak Wolff.
Intervistato dal New York Times in un recente articolo sul caso Karamalikov, il rabbino Wolff che in quel momento si trovava in Germania, ha preso le difese del suo amico e ha detto che non sa se e quando tornerà a Kherson perché lui stesso è sospettato da qualcuno di aver collaborato con i russi perché gli permetteva di pregare in sinagoga. In realtà, spiega Iosif Itzhak Telenga, il prolungarsi dell’assenza del rabbino si spiega piuttosto con ragioni di sicurezza e con la pericolosità di tornare nella città sotto il continuo tiro dell’artiglieria russa. Il rabbino insieme a moglie e figli era partito da Kherson il 16 ottobre tramite la Crimea per recarsi ai matrimoni dei suoi figli in Europa e aveva l’intenzione di tornare a fine novembre-inizio dicembre. Rav Wolff, originario di Israele, è arrivato a Kherson nei primi anni Novanta del secolo scorso ed è diventato rabbino capo di Kherson e della regione nel 1998, succedendo a suo fratello Avraham Wolff, l’attuale rabbino capo di Odessa e del Sud dell’Ucraina. Yoseff Itzhak Wolff è rimasto al fianco della sua comunità anche durante l’occupazione russa. “La comunità è come una sua creatura, gli deve la rinascita, ha creato programmi per i giovani, un kollel per gli uomini e quello per le donne”, racconta a Mosaico Ekaterina, assistente del rabbino e figlia di Iosif Itzhak Telenga. “Il nostro rabbino ha creato quattro programmi di beneficenza. Tanti ebrei che volevano partire sono rimasti solo grazie a quello che ha fatto per la comunità”.
La sinagoga Chabad attualmente è l’unica in città, che contava 22 tempi ebraici prima dell’Olocausto e diventò nell’Ottocento un centro prosperoso del commercio ebraico, dopo la sua fondazione nel 1778 voluta dal principe Grigorij Potemkin durante la colonizzazione del Sud dell’Ucraina da parte dell’impero russo. Passato imperiale che viene riesumato dal presidente russo Vladimir Putin per rivendicare la sua pretesa su questo territorio.
Iosif, il gestore della sinagoga, conferma che venivano a pregare nel tempio ufficiali russi di alto rango. “Erano ebrei perché il rabbino li chiamava a leggere la Torah”, dice. Due giorni dopo la liberazione sono venuti nella sinagoga due ufficiali del Servizio per la sicurezza dell’Ucraina. “Non hanno niente contro di noi. Non gli ho nascosto nulla, secondo le indicazioni del rabbino. Non abbiamo fatto niente che andasse contro la legge”, spiega. “E cosa dovevamo fare, non far entrare i russi a pregare?” Iosif si ricorda: “Il rabbino mi diceva ancora a giugno che, se entra l’esercito ucraino, noi tutti che siamo rimasti qua verremo tacciati di collaborazionismo”.
L'”affaire Karamalikov” e le accuse di collaborazionismo
Quanto la coesistenza forzata con l’amministrazione d’occupazione a Kherson si è rivelata un campo minato lo dimostra proprio la vicenda di Ilia Karamalikov. Per spiegare com’è nata questa storia complicata il legale difensore di Karamalikov, Mikhail Velichko, avvocato molto noto a Kherson e che ora lavora a Kiev, cerca di ricostruire nella conversazione con Mosaico i primi giorni caotici della guerra a Kherson.
Mentre le forze di sicurezza scappavano da Kherson, l’esercito russo non è entrato subito in città, ma dopo aver raggiunto la sponda destra del Dnipro ha proseguito in direzione di Mikolaïv e Odessa. I russi hanno fatto ingresso in città solo il 1° marzo e fino a quel giorno Kherson è rimasta bloccata. Comincia così il caos e il saccheggio dei negozi. In città rimangono il sindaco Igor Kolykhajev e cinque consiglieri comunali, tra cui Karamalikov. Proprietario dei centri di divertimento Amigo e Shade e di una rete di supermercati, quest’ultimo fa un appello sui social e raccoglie il 25 aprile una forza di circa 1000 uomini per formare una guardia civica con l’obiettivo di mantenere l’ordine in città di cui lui stesso diventa coordinatore. Nello stesso tempo Karamalikov organizza tramite la sua guardia civica la distribuzione degli aiuti umanitari alla popolazione, beni acquistati coi propri mezzi e donati dalle principali catene alimentari della città.
Secondo quanto racconta l’avvocato Velichko, con l’insediamento delle autorità d’occupazione in città, Karamalikov viene introdotto all’ufficiale russo dal nome in codice “Alpha”, che diventa la persona di riferimento per derimere eventuali controversie tra le forze russe e gli uomini di Karamalikov, che continuano ad operare e vengono tollerati dagli invasori. Secondo l’atto d’accusa, Karamalikov durante questo incontro con “Alpha” viene reclutato dai russi e diventa un loro collaboratore, affermazione che non viene confermata da nessuna prova, sostiene Velichko.
L’episodio chiave sul quale poggia l’atto d’accusa contro Karamalikov avviene il 15 marzo 2022, quando durante il bombardamento dell’aeroporto di Kherson da parte dell’artiglieria ucraina, un soldato russo scappa, si perde e viene fermato nella notte nel quartiere Ostrov della città da due membri della guardia civica di Karamalikov. Il militare si arrende senza opporre resistenza, prima viene tenuto in una scuola e poi consegnato a Karamalikov. Viene presa la decisione collegiale di restituirlo ai russi per evitare le repressioni contro la guardia popolare. Karamalikov contatta “Alpha” per concordare la consegna del disertore russo, telefonata che viene intercettata dai servizi ucraini e utilizzata come prova contro il consigliere comunale di Kherson.
L’avvocato Velichko descrive questa situazione come unica nel suo genere in Ucraina: dei civili ucraini tengono in prigionia un disertore russo mentre si trovano in una città occupata. “Ancora non è stato spiegato cosa dovevano fare”, commenta il legale. Karamalikov e i suoi uomini non potevano portare il soldato in carcere perché all’epoca era già controllato dai russi. Uccidere un prigioniero che non opponeva resistenza sarebbe stato contro le Convenzioni di Ginevra e contro le convinzioni personali di Karamalikov, profondamente pacifista, argomenta Velichko. Nello stesso momento, sostiene Velichko, Karamalikov stava nascondendo 38 soldati ucraini che si erano ritirati in città dopo la battaglia sul ponte Antonovskij. “Se Ilia si fosse davvero schierato col nemico, avrebbe dovuto consegnare questi militari ucraini”, dice l’avvocato.
Sempre secondo Velichko, in aprile Karamalikov decide di evacuare da Kherson la sua famiglia perché le autorità di occupazione gli stanno facendo pressione affinché spinga i suoi uomini a collaborare con i russi. Pur essendo cittadino israeliano e con in tasca il passaporto col visto statunitense e canadese, Karamalikov si dirige verso il territorio controllato dall’Ucraina e viene arrestato nella regione di Mikolaïv. Il legale sostiene che per sei giorni Karamalikov sia stato tenuto in uno scantinato dai servizi ucraini che lo avrebbero torturato per estorcergli la confessione. Solo il 20 aprile Karamalikov riemerge in un tribunale di Kryvyi Rih e viene iscritto nel registro degli indagati come sospettato di tradimento di Stato. L’avvocato Velichko dice che in merito al sequestro e alle presunte torture di Karamalikov l’Ufficio statale di investigazioni dell’Ucraina ha aperto un’inchiesta contro il Servizio di sicurezza ucraino e la Procura.
Tra le altre accuse incriminate a Karamalikov c’è anche la promozione tra i consiglieri comunali di Kherson del “mondo russo”, la distribuzione degli aiuti umanitari russi e quella di aver consegnato ai russi i dati sensibili degli attivisti pro-ucraini. Secondo l’avvocato sono tutte accuse prive di fondamento. Anche se in base alle notizie diffuse dalla stampa ucraina Karamalikov sarebbe indicato dal sito filorusso Khersonskij vestnik tra i propri collaboratori. Karamalikov sui propri social indica di essere anche membro dell’Unione nazionale dei giornalisti ucraini, mentre la stessa Unione lo ha smentito. D’altra parte, Velichko racconta che Karamalikov era tra i finanziatori della campagna presidenziale di Volodimir Zelenskij nella regione di Kherson e nel capoluogo.
Secondo l’avvocato, l’inchiesta contro Karamalikov è stata aperta in base al rapporto firmato dal generale di brigata Sergyi Krivoruchko, capo della direzione del Servizio di sicurezza ucraino per la regione di Kherson, lo stesso che il 1° aprile scorso è stato destituito su disposizione di Volodimir Zelenskij. “Stiamo parlando di un conflitto di interessi: si sono evacuati e hanno iniziato a perseguitare la persone nella città occupata per riabilitarsi”, commenta l’avvocato Velichko.
Nonostante il Rav Wolff si sia offerto di garantire per Karamalikov e la corte di Kryvyi Rih abbia confermato la buona reputazione del rabbino, la richiesta di scarcerazione è stata respinta. Karamalikov rimane in cella e dopo la fase delle indagini preliminari sta iniziando il processo. “Sono sicuro che riusciremo a dimostrare che le sue azioni non costituiscono reato”, si dice ottimista Velichko.