Hamas

Un rapporto svela la strategia di Hamas per nascondere le perdite di combattenti a Gaza

Mondo

di Redazione
In un rapporto citato dal quotidiano Haaretz e riportato dal Times of Israel, una fonte ha spiegato che per Hamas la guerra con Israele non si limita al campo di battaglia, ma include anche la battaglia per preservare la propria immagine globale. Nascondendo le informazioni sui combattenti uccisi e concentrandosi solo sulle perdite civili, Hamas spera di ottenere maggiore sostegno internazionale nella sua lotta contro Israele.

Tuttavia, a Gaza, la segretezza con cui Hamas gestisce le proprie operazioni contrasta nettamente con la trasparenza che lo stesso gruppo mostra in Cisgiordania. In quest’ultima area, non esita infatti a rivelare i nomi dei combattenti uccisi dall’esercito israeliano e li svela pure con orgoglio. Hezbollah, in Libano, segue una prassi simile: mantiene un elenco aggiornato delle sue vittime negli scontri con Israele.

Questo approccio solleva interrogativi: perché questa segretezza a Gaza per nascondere le perdite dei suoi soldati? Si tratta di una strategia per preservare la loro forza morale o c’è qualcosa di più? Un altro aspetto è legato al timore delle ritorsioni. A Gaza, chi perde un familiare affiliato a Hamas può avere paura a parlarne apertamente, temendo ripercussioni.

Citando residenti anonimi della Striscia di Gaza, il rapporto – che giunge nel bel mezzo della guerra – afferma che la norma non ufficiale viene applicata a tal punto che perfino i familiari degli agenti di Hamas uccisi si astengono dal lutto pubblico. «C’è paura di parlare pubblicamente degli agenti di Hamas, compresi quelli che sono stati uccisi», ha detto un residente di Gaza ad Haaretz, spiegando che c’era paura di essere etichettati come «traditori» o «collaboratori» e di essere molestati dal gruppo terroristico.

Secondo le voci che circolano per le strade, se i nomi degli uomini armati uccisi venissero resi pubblici, le persone in tutto il mondo potrebbero sentirsi meno colpite dalle sofferenze dei gazawi, e questo potrebbe giustificare il bombardamento di Gaza, ha detto un altro residente, conosciuto con lo pseudonimo di Adnan. «Finché si mostrano filmati e storie della popolazione civile, nessuno protesta. Ma se qualcuno osa criticare Hamas o nominare un combattente ucciso, verrà considerato un traditore e trattato come tale».

Bushra (nome di fantasia), una donna che vive in questa realtà difficile (nome di fantasia), racconta qualcosa di sorprendente: spesso i familiari non sanno nemmeno cosa fanno i loro cari quando entrano in Hamas. Quando poi muoiono in combattimento, la notizia arriva in modo frammentato, come un eco lontano. A volte ci vogliono giorni, settimane addirittura, prima che i genitori ne siano informati. La notizia della loro morte viene trasmessa solo per passaparola diffondendosi da una persona all’altra fino a raggiungere i loro cari.

Nonostante tutto questo silenzio soffocante, la gente di Gaza ha imparato a trovare informazioni in modi diversi. Non si può sempre contare sulle vie ufficiali, perciò molti si affidano ai social. Questi strumenti digitali sono diventati essenziali per cercare di capire chi è stato ucciso. È una rete sotterranea di notizie che non sarà perfetta, ma, senza altro, è quello che c’è.

Nel frattempo, il Ministero della Salute di Gaza, che è sotto il controllo di Hamas, ha diffuso cifre impressionanti: oltre 40.000 persone sarebbero state uccise o risultano disperse dall’inizio del conflitto. Ma quei numeri, dicono gli esperti, non possono essere verificati in modo indipendente, e c’è anche da dire che non fanno distinzione tra chi fosse un civile e chi un combattente.

Israele, dal canto suo, ha dichiarato di aver eliminato circa 17.000 combattenti di Hamas e 1.000 terroristi nel famoso attacco del 7 ottobre. Le autorità israeliane continuano a sottolineare che fanno il possibile per limitare i danni ai civili, puntando il dito contro Hamas, accusandoli di usare la popolazione come scudi umani, nascondendosi tra case, scuole, ospedali e, addirittura, moschee.

Un dato interessante viene da una recente analisi dell’Associated Press: da giugno, la percentuale di donne e bambini uccisi è scesa sensibilmente. Come mai? Pare sia dovuto a un cambiamento nelle tattiche di Israele, cosa che va a contraddire quanto detto da Hamas. A ottobre, oltre il 60% delle vittime erano donne e bambini. Ma già ad aprile, quel numero era sceso sotto il 40%. Eppure, questa riduzione non ha attirato grande attenzione, né dalle Nazioni Unite né dai media. Hamas, da parte sua, non sembra aver mostrato interesse a correggere questi dati in pubblico.

Ci si rende conto, insomma, che questa guerra non è fatta solo di proiettili e bombe, ma anche di informazioni. Ogni parte cerca di modellare la propria narrativa per guadagnare terreno, mentre la popolazione civile resta, come sempre, intrappolata in mezzo. E, alla fine, che cosa sono? Numeri. Freddi numeri.

Questa mancanza di trasparenza da parte di Hamas non sembra solo una strategia di guerra. È anche un modo per mantenere un certo controllo sulla narrativa interna. Tuttavia, in tutto questo gioco di potere, fatto di silenzi e mezze verità, trovare la realtà diventa sempre più complicato. Alla fine, come sempre, sono i civili a pagarne il prezzo più alto. Bloccati in una guerra di cui spesso non comprendono né le cause né l’orizzonte.