di Claudio Vercelli
Circa duecento delegati – tra cui 17 donne, di 17 nazioni diverse – in rappresentanza di una settantina di organizzazioni, tra il 29 e il 31 agosto 1897 si riunirono presso lo Stadtcasino cittadino per dare corso al Primo Congresso Sionista. A Basilea, città scelta dopo l’indisponibilità da parte di Monaco di Baviera di dare ospitalità all’iniziativa – avversata prima di tutto in ambito ebraico, laddove molti temevano che potesse essere letta come un atto di slealtà verso il patriottismo germanico, al quale molti si sentivano comunque legati – confluirono gli esponenti di un movimento per più aspetti “eretico”, destinato come tale a scuotere, nel corso del tempo, la coscienza ebraica di sé. L’accoglienza da parte dell’ebraismo elvetico, peraltro, fu assai tiepida. Non si coglieva l’urgenza né la rilevanza di un progetto, allora inteso come inutilmente utopistico, per la costituzione di una comunità politica unitaria.
Dagli esiti dell’assise congressuale derivò la fondazione dell’Organizzazione sionista mondiale e l’adozione del Programma di Basilea, in ragione del quale si dichiarava che «lo scopo del sionismo è quello di creare una casa in Eretz Israel per gli ebrei sotto tutela della legge e riconosciuto a livello internazionale». A corredo di ciò si aggiungevano una serie di punti programmatici tra i quali la centralità dell’insediamento rurale e l’autonomia dei produttori ebraici rispetto alle altre comunità autoctone; la diffusione e la promozione del «sentimento nazionale» tra gli ebrei della Diaspora; la ricerca, per via diplomatica, del consenso all’intera iniziativa da parte delle potenze mediterranee ed europee; la costituzione di istituzioni collettive in grado di organizzare gli immigrati ebrei, indirizzandoli comunemente verso l’obiettivo di consolidare il futuro insediamento pioneristico e colonico.
Il Congresso di Basilea è un punto fermo nel percorso verso uno Stato e una società ebraiche. Precedentemente vi erano state più e ripetute esperienze, volte alla realizzazione delle condizioni di un ritorno alla terra dei Padri; esse, tuttavia, non si erano tradotte in un movimento collettivo capace di incidere concretamente sullo stato delle cose. Affinché si potesse transitare dal regno delle ipotesi e dei desideri al campo delle effettive possibilità dovevano maturare alcune condizioni che, fino alla prima metà dell’Ottocento, risultavano inesistenti. Soprattutto, all’interno del variegato e frammentato mondo ebraico si doveva pervenire alla tematizzazione di una ipotesi di riunificazione fondata su premesse di ordine politico, seguendo le esperienze che un po’ per tutta l’Europa – e non solo – stavano animando le costituende società nazionali. La crisi della «forma-impero multietnico» in tutta l’Europa e nel Mediterraneo stava lì a testimoniare della inderogabilità, per le collettività che si riconoscevano come soggetti unitari, di una diversa organizzazione dei poteri. In ciò si rifletteva anche l’affermarsi, sia pure solo nella coscienza di piccoli gruppi sostanzialmente elitari, del principio di autodeterminazione delle nazioni e dei popoli.
Il modello dello Stato nazionale, tendenzialmente mono-etnico, doveva quindi sostituirsi alle idee, fino ad allora prevalenti, di un ritorno a Sion legato a una propensione prevalentemente, se non unicamente, spirituale o religiosa. In altre parole, l’ebraismo doveva costituirsi come vero e proprio corpo politico, per certi versi affrancato da quelle accezioni della tradizione che dalle consuetudini e in una concezione quietistica della vita quotidiana traevano invece fondamento e legittimazione.
Poiché il sionismo politico non aveva nessun “mitico passato” da rivendicare, di contro alla miseria del presente, ma solo una qualche idea di futuro da proporre, non esisteva una società ebraica unitaria da recuperare bensì un insieme frammentato di piccole comunità, ripiegate su di sé, oltre le quali andare, per cercare in qualche modo di giungere all’obiettivo premiante di uno Stato. La nazione ebraica era quindi tutta da costruire. La forza del sionismo politico stava, d’altro canto, nell’essere nato al crocevia di molte idee e di altrettanti pensieri. E in posti tra di loro differenti. Basti fare mente locale ai luoghi del movimento: Odessa, Vienna, Berlino, Monaco, Parigi, Basilea erano le città dove si generò il pensiero e dove maturarono le scelte.
Theodor Herzl e lo Stato degli Ebrei
La figura di spicco era Theodor Herzl, un ebreo europeo per buona parte assimilato, abituato a viaggiare, germanofono e germanofilo, di professione giornalista. Nato a Budapest, cresciuto a Vienna, secondo l’agiografia datava al soggiorno parigino la scelta di raccogliere in Der Judenstaat («Lo Stato degli ebrei»), il famoso libretto che lo consegnò alla storia, le riflessioni sui problemi sollevati dall’Affaire Dreyfus. Ma era a Vienna, la vera centrale dell’antisemitismo europeo di fine Ottocento, che Herzl avviò un confronto con se stesso, la sua condizione e quella dei suoi correligionari. Non si poteva più essere ebrei “proprio malgrado” e se l’emancipazione aveva indotto certuni, forse anche molti, a credere che tutto potesse trovare un accomodamento, i fatti si incaricavano ora di smentire le speranze mal riposte. Le vicende parigine, insomma, non fecero altro che rafforzare questo convincimento. Se l’assimilazione era intollerabile, la tolleranza in quanto minoranza sempre e comunque revocabile, la dispersione diasporica una condizione di minorità, l’unica risposta possibile, sul lungo periodo, non poteva essere che di natura politica: la costituzione di uno Stato indipendente con il concorso delle grandi potenze internazionali.
Non era rilevante dove tale comunità politica venisse concretamente creata: non si trattava, infatti, di una questione geografica ma di un problema eminentemente politico. La contrattazione delle condizioni necessarie per ottenere un tale obiettivo avrebbe dovuto necessariamente precedere ogni altro genere di iniziativa, a partire dalla colonizzazione delle terre. A tale riguardo Herzl preconizza alcune istituzioni che avrebbero dovuto accompagnare quanti avessero scelto la via sionista nel momento della sua realizzazione. Lo Stato degli ebrei avrebbe comunque potuto esistere solo se connotato dal suo essere moderno e occidentale. Herzl pensava che lo strumento più importante per raggiungere tale obiettivo fosse la diplomazia. In quest’ottica diventò egli stesso ambasciatore delle sue idee, destinate comunque ad avere riscontri, soprattutto tra quegli ebrei dell’Est che, arrivati dopo una migrazione coatta dai paesi d’origine in Europa occidentale, diventavano i destinatari elettivi della sua proposta.
Il Congresso di Basilea del 1897 sancì quindi il progetto sionista nella sua reale dimensione, appellandosi pubblicamente agli ebrei per ottenere la loro adesione ideologica e ai non ebrei per avere la sanzione politica. Da quel momento e fino alla sua morte, nel 1904, Herzl cercherà in tutti i modi di raggiungere quello che considerava l’obiettivo più rilevante, un documento politico che accordasse agli ebrei i diritti sovrani su di un territorio. Con scarsi risultati, ad onore del vero.
Il Congresso nella Storia
Al congresso svizzero seguirono, con scadenza annuale e poi biennale, altre assise. Nella quinta, tenutasi ancora una volta a Basilea, emerse la netta divergenza che intercorreva tra i sionisti politici, ancora ancorati ad un progetto “dall’alto”, fatto di trattative diplomatiche e di mediazioni politiche, da certuni oramai viste come inconcludenti, e i sionisti «pratici», le cui file erano costituite perlopiù da giovani ebrei dell’Est, che volevano mordere i freni, dinanzi alla galoppante crisi sociale dei paesi di origine. La critica che questi ultimi muovevano ad Herzl e ai suoi sostenitori era svolta sia nei termini di un’accusa di eccesso di astrazione delle posizioni del movimento che di una sostanziale indifferenza verso il vero nucleo dell’ebraismo, identificato con quanto già Ahad Ha-am aveva definito come «nocciolo spirituale». Di lì agli anni successivi la storia avrebbe fatto il suo corso, in maniera tanto imprevedibile quanto tumultuosa. Fino ai nostri giorni.