Approfondimento sui media/4. Alessandro Sallusti: «Il pericolo maggiore? L’indifferenza»

di David Fiorentini
Alessandro Sallusti è un giornalista che ha fan e detrattori piuttosto agguerriti, perché è un uomo che non si nasconde dietro a semplificazioni diplomatiche e non teme di essere quindi “divisivo”. Piaccia o no, dice quello che pensa, senza infingimenti. E su Israele non ha dubbi: «Il 9 ottobre ho messo la bandiera israeliana in copertina sul Giornale e la maggior parte dei lettori non ha capito perché fosse importante testimoniare così la nostra vicinanza a Israele», racconta. Paragonando quindi l’ignavia dell’Occidente a quella delle nazioni europee nei confronti di Hitler nella conferenza di Monaco del 1938, ha auspicato più decisione da parte di tutti nello scegliere da che parte stare, perché «se la maggioranza tace, resta solo la voce della minoranza».

(N.B. L’intervista è stata svolta prima dell’attacco dell’Iran a Israele di sabato 13 aprile).

Dopo il 7 ottobre qual è stata la linea editoriale de Il Giornale? Come avete trattato il conflitto mediorientale negli ultimi mesi?

Dal punto di vista della cronaca il nostro mestiere è raccontare, lo abbiamo fatto nella maniera più oggettiva possibile, riportando quello che accadeva sul campo prima, durante e dopo. Però, si è posto subito il problema che qualsiasi fosse stata la cronaca, noi non stiamo parlando solo di quello che succede oggi, ma di quello che è successo in passato e che potrebbe succedere in futuro. Al di là di quello che dice la cronaca, quando accadono fatti di questo genere, bisogna scegliere da che parte stare. Che non è soltanto scegliere di stare dalla parte, in questo caso, di Israele, come siamo stati, ma di scegliere di stare dalla nostra parte, dalla parte del mondo occidentale e del mondo libero.

Essendo un tema così vasto, nelle riunioni di redazione è stato complesso raggiungere una linea comune sul modo di riportare la guerra in corso e l’ondata di antisemitismo che si è propagata in tutto l’Occidente?

No, non è stato difficile, perché io credo che non è vero che c’è un diffuso senso antisemita in Italia. Certo ci sono delle minoranze molto rumorose che vediamo tutti i weekend nelle piazze e che leggiamo quasi tutti i giorni su alcuni giornali, ma sono davvero delle minoranze. A me preoccupa di più l’indifferenza. Sai come a dire, “ma non è un nostro problema, no?” Questo mi preoccupa molto. Perché gli antisemiti, che vanno sicuramente contrastati, combattuti e denunciati, ci saranno sempre. Mi preoccupa proprio il negazionismo del problema. Negare che Israele abbia il diritto di vivere, come se non fosse un nostro problema, vuol dire che come società abbiamo toppato.

Avete scelto una linea editoriale molto chiara, che potrebbe aver scatenato le proteste di tante persone che la pensano diversamente sul conflitto. Avete ricevuto molte critiche?

In realtà no. Dall’8 ottobre fino a poco tempo fa ho tenuto la bandiera di Israele nella testata del giornale e anche io mi aspettavo che qualcuno storcesse il naso. Ma ciò non è accaduto perché i giornali stampati, essendosi ridotti molto dal punto di vista numerico, ormai sono delle specie di famiglie, e chi è rimasto ancora lettore del cartaceo ha una sfera valoriale assolutamente compatibile e condivide il fatto di tenere la bandiera di Israele sulla testata, testimoniando una vicinanza dal punto di vista umano e culturale. Però sai a me cosa preoccupa a proposito di queste minoranze facinorose?

Che cosa, Direttore?

Quando queste minoranze prendono possesso in maniera non democratica, al posto di stare all’opposizione, delle università italiane. Non dimentichiamoci che il Manifesto della Razza, la pietra della vergogna che ci porteremo appresso per l’eternità, non nacque nelle sedi del partito fascista, ma negli atenei italiani. Il Manifesto della Razza fu scritto da sette professori di varie prestigiose università e venne anche firmato da una schiera di accademici. Per cui, quando vedo i rettori delle università di Roma, di Torino, di Bologna cedere a delle minoranze violente, vedo un germe pericoloso.

Rimanendo sul tema delle università, spesso si cita la libertà di espressione, senza accorgersi che questi collettivi ormai abbiano ampiamente superato il limite. Come possiamo uscire da questa situazione?

Io non cadrei nel tranello della libertà di espressione. È ovvio che deve esistere la libertà di espressione, ma proprio per questo, chi riconosce che debba esistere matematicamente deve riconoscere la libertà di espressione degli altri. Se io non riconosco la libertà di espressione di Parenzo e Molinari di esprimere le loro ragioni, non posso rivendicare poi il diritto di esprimere la mia opinione. Non sta in piedi come logica, è un ossimoro.

La cosa che più mi spiace, non tanto sui giornali, ma nei talk show televisivi, anche i più autorevoli che raggiungono milioni di persone, è che questa presa in giro vada in onda senza essere smascherata. Ci sono alcune trasmissioni molto autorevoli che sono al confine della complicità con l’antisionismo.

Questo è un tema che sfocia anche sui social media, dove la voce degli attivisti pro-pal è esponenzialmente più grande rispetto a chi vuole cercare di ristabilire un dialogo.

È certamente così, ma la differenza è che il social è autoprodotto. Per quanto sia più pericoloso, c’è una responsabilità individuale. Ma se io vado in una trasmissione televisiva autorevole e certificata, dove c’è un conduttore che si presume autorevole e famoso, e dico “Israele m***a” non si può ribattere con “vabbè passiamo alla domanda successiva”. Non può funzionare così!

Passando proprio all’aspetto tecnico del mondo giornalistico, la BBC in 4 mesi ha dovuto rilasciare varie smentite sul conflitto mediorientale, in seguito alla pubblicazione di informazioni ricevute da fonti poco attendibili. Voi come riuscite a filtrare le fake news tra tutte le notizie che ricevete? Come riuscite a informarvi in tempi così rapidi?

Noi, come penso e spero la maggior parte dei giornali, su ogni notizia ovviamente tentiamo di certificare le fonti di provenienza, filtrando le decine se non migliaia di informazioni che arrivano dai fronti di guerra, tenendo sempre a mente che la propaganda è un’arma vera e propria.

Se da un lato le notizie vere o false non cambiano la situazione sul campo, dall’altro cambiano l’orientamento e il giudizio dell’opinione pubblica nelle democrazie. Nelle democrazie occidentali, i governi e la politica sono molto sensibili all’opinione pubblica. Quindi cosa succede? Che se l’opinione pubblica si convince che Israele stia sbagliando, i governi ne devono tenerne conto nelle loro mosse, nel loro agire e quindi ecco che la propaganda diventa un’arma decisiva.  È più facile che un governo cambi posizione rispetto a un tema, per esempio su Israele, solamente perché la sua opinione pubblica ha cambiato posizione, non perché ritiene che sia giusto o sbagliato. Quindi la propaganda è un’arma micidiale.

Purtroppo però in rete le fake news riescono comunque a circolare indisturbate, e più tempo passa e più diventa difficile smontare queste falsità.

Ma infatti non la smonti più! Perché poi se provi a smontarla c’è chi dice “eh, si sa che Sallusti è amico di Israele, vuoi che ci fidiamo di quello che dice Sallusti?”, “Ma se tutti dicono che è vero, figurati se Sallusti…” È veramente imparabile ed è un tema che abbiamo sperimentato nella guerra ucraina e che stiamo sperimentando nella crisi palestinese.  Bisogna prendere atto che è un problema enorme e di difficilissima soluzione, quasi impossibile.

Ormai la principale battaglia lontano dal fronte è quella delle opinioni e delle fake news, che forse in Italia sono limitate a delle minoranze, ma che in altri paesi europei invece sono molto più diffuse.

Sì, ci sono paesi, la Francia e la Germania, che hanno subìto prima in maniera più massiccia il fenomeno immigratorio – qui siamo già la seconda o terza generazione -, essendo ovvio che l’antisemitismo per certi versi è legato al fenomeno dell’immigrazione, poiché la popolazione di origine è tendenzialmente più predisposta ad accogliere tesi antisemite, in cui nasce una solidarietà naturale. Tra l’altro, magari per un sentimento di grandeur francese e tedesca, in questi paesi c’è un tasso di antioccidentalismo paradossalmente superiore. Ed è il motivo per cui l’Occidente finirà malissimo. Non capire che se parliamo di Israele parliamo di noi, è l’inizio della fine.  Tante volte uno rimane allibito.

L’equidistanza ha portato nel 1938 alla conferenza di Monaco e al via libera del nazismo. Disse Churchill, quando Chamberlain tornò dall’incontro con Hitler, che “gli inglesi potevano scegliere tra il disonore e la guerra, scelsero il disonore e hanno avuto la guerra”. Io credo che questa frase sia adattabile all’Occidente, che deve scegliere tra il disonore di non difendere Israele o finire da sé la guerra con Hamas. Stiamo scegliendo il disonore e avremo la guerra con Hamas, perché se non la finisce Israele, non la finirà mai nessun’altro.

Certo, questo è assolutamente importante da far capire al pubblico, non è mera una disputa territoriale, è una questione esistenziale.

È quello che non capiscono, non c’è verso. “Vabbè ma tanto è solo una striscia”. Sì, anche la Cecoslovacchia era una striscia, no? Poi Hitler si è preso l’Europa.