di Ilaria Myr
Ripubblichiamo l’intervista fatta da Bet Magazine-Bollettino ad Amos oz nel 2010, a cui era stata dedicata la copertina del numero di dicembre.
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«Sono tutti indietro di cottura. Parlo dei nostri politici e governanti. È drammatico – e per me molto amaro – oggi renderci conto e capire quanto la società civile, quella israeliana e quella palestinese, sia chilometri più avanti, più matura ed evoluta di chi la governa. La verità? La gente di Israele e la gente di Palestina è pronta al compromesso storico. Ovvero a venire a patti con una coabitazione difficile ma necessaria”. A parlare così, con toni accorati e meno istituzionali del solito è Amos Oz, nella duplice veste di testimonial-ambasciatore di pace e di scrittore, oggi di passaggio in Italia per ritirare due premi Letterari, quello della Fiera del libro di Torino e quello del Festival Internazionale di Cultura Ebraica OyOyOy!, e per presentare agli italiani il Centro Peres per la Pace – e promuoverne il fund-raising.
A 71 anni l’autore di Storia d’amore e di tenebra e dell’ultimo romanzo Scene dalla vita di un villaggio (Feltrinelli entrambi) non nasconde la tristezza e un senso di urgenza, qualcosa di irrimandabile che deve accadere a tutti i costi. Abbiamo incontrato Oz -e la straordinaria Nilly, sua moglie -, nel foyer del Teatro Franco Parenti. Ecco l’intervista.
Oz, per la propria esperienza lei costituisce una specie di ponte fra passato e presente, una sorta di coscienza critica del Paese. Quale contributo possono dare oggi gli scrittori alla situazione?
Non posso parlare a nome di un gruppo ma solo per me stesso. Sono uno scrittore e un insegnante, e quello che posso dare sono essenzialmente due cose: le mie storie e i miei saggi. Chi vuole prendere, prenda pure, chi non vuole non è obbligato. Ma non ho un messaggio da dare al mondo. Semplicemente credo fortemente nella pace e nella riconciliazione e sono un grande, appassionato fautore dei compromessi. Sono ormai quarant’anni che parlo delle necessità di una riconciliazione fra israeliani e palestinesi, e della soluzione di due popoli in due Stati. Questa idea oggi è sempre più accettata e condivisa dalla società civile e si può stabilire con relativa sicurezza che la maggioranza dei due popoli sia matura finalmente per un compromesso. Certo, non ne sono felici, ma sono pronti. Il problema è che invece sono i leader politici a non essere all’altezza. Una metafora efficace? Il paziente israeliano e quello palestinese sono entrambi pronti all’intervento chirurgico, peccato che i dottori siano tutti codardi e non ce ne sia uno solo disposto a operare.
E allora come fare pressione?
Nessuno, neanche il Peres Center, può obbligare i governi a fare quello che non vogliono. Quello che però è fondamentale è lavorare affinché i popoli, le persone comuni, la gente, tutti insomma alzino la propria voce e parlino forte e chiaro. E soprattutto, credere fermamente che se ci facciamo sentire, alla fine i leader politici ci ascolteranno. L’obiettivo del Peres Center è di fare incontrare israeliani e palestinesi su un piano personale e umano. In questo senso si lavora molto sul fronte dell’educazione alla pace e nella costruzione di ponti culturali fra i due.
Come uscire dallo stallo in cui versano i negoziati di pace?
Beh, innanzitutto Israele dovrebbe bloccare la costruzione di colonie nei territori occupati. Poi si deve riprendere a parlare, cercando di arrivare al punto cruciale: la nascita di due Stati. Perché tutti lo sanno: alla fine l’unica vera soluzione sarà l’esistenza di uno Stato israeliano accanto a uno palestinese, con due capitali, entrambe a Gerusalemme.
C’è chi dice che se i palestinesi pongono così tanta enfasi sulla questione delle colonie è perché hanno dalla propria parte la sinistra israeliana, che non ha mai nascosto la sua contrarietà a questa politica. Qual è la sua opinione?
Penso che sia molto stupido pensare che la sinistra israeliana stia insegnando ai palestinesi che cosa dire e come comportarsi. Da quarant’anni sono fermamente convinto che la costruzione di colonie nei territori sia profondamente sbagliata, e che Israele non avrebbe mai dovuto edificarne, non una sola. Ora i palestinesi chiedono a Israele di bloccare questo processo, e hanno ragione. Dal canto suo, di recente, il governo Netanyahu ha fermato ulteriori costruzioni per un mese intero, ma anche in quel caso il governo palestinese non ha accettato di sedersi al tavolo dei negoziati. La responsabilità è dei leader politici, miopi, piccoli e cavillosi.
Qual è il ruolo dei giovani e dell’educazione nel processo di pace? Non è un mistero che fra i palestinesi vengano impartiti insegnamenti dichiaratamente antisionisti e antisemiti.
Quando c’è un conflitto esistono sempre terribili stereotipi sull’altro, demonizzazioni da entrambe le parti. In questo senso, il Centro Peres per la Pace sta facendo un lavoro eccellente per rimuovere questi clichè, spesso molto forti e radicati.
Cosa pensa della recente e discussa legge che chiede a tutti i non-ebrei che ricevono la cittadinanza israeliana di giurare fedeltà allo Stato ebraico (vedi Bollettino di novembre, ndr)?
È una legge che non mi piace. Un cittadino israeliano dovrebbe giurare fedeltà alla dichiarazione di indipendenza, e questo è sufficiente. Il problema degli arabi israeliani? La loro condizione è sicuramente drammatica. Un giorno un uomo mi ha detto: “dovete capire che il mio Paese è in guerra con il mio popolo. E questa situazione si risolverà soltanto nel momento in cui ci sarà pace fra israeliani e palestinesi, perché verrà meno qualsiasi questione di lealtà”.
Quale dovrebbe essere l’atteggiamento della comunità internazionale per uscire dall’impasse di oggi?
Questo è il momento di estendere la solidarietà e tendere la mano ai due
popoli, senza distinzione. Israeliani e palestinesi stanno affrontando un’operazione dolorosa perché la soluzione dei due Stati significa un’amputazione, sia per Israele che per la Palestina. Gli europei, dal canto loro, dovrebbero smettere di svegliarsi al mattino e pensare a chi dare la colpa, quale petizioni firmare o a quali manifestazioni di piazza partecipare: dovrebbero invece semplicemente chiedersi come possono aiutare le due parti. E quando parlo di aiuto, intendo un sostegno concreto. Qualche esempio? Una volta che verrà costituito uno Stato palestinese ci sarà un serio problema con centinaia di migliaia di profughi palestinesi. In quel caso, ci sarà un bisogno disperato di fondi, di volontari e di aiuti diversi. E poi, certamente ci sarà la questione delle colonie nei territori, che Israele dovrà necessariamente smantellare: questo comporterà l’evacuazione di migliaia di persone, e sarà anche questa un’operazione che richiederà molta assistenza, cooperazione, solidarietà. “