di Ilaria Myr
Nipote d’arte (suo nonno era Shalom Aleichem), scrittrice newyorkese popolarissima, uno humour graffiante: oggi Bel Kaufman è un mito vivente. Dopo una vita avventurosa e 80 anni d’insegnamento, l’arzilla centenaria non smette di stupire, sorprendere, divertire.
«Cara Belochka, ti scrivo questa lettera per chiederti di sbrigarti a crescere e a imparare a scrivere, così potrai scrivermi una lettera. Per crescere, è necessario che tu beva latte, mangi le zuppe e le verdure e poche caramelle. Saluti alle tue bambole. Tuo nonno, Sholem Aleichem».
Così scriveva il celebre scrittore in lingua yiddish alla sua nipotina di quattro anni, un anno prima di morire, instillandole già, in quella giovane età, il fuoco sacro della scrittura. E’ stato forse per quell’augurio e quei preziosi consigli, che Bel Kaufman è diventata un’autrice molto nota, soprattutto negli Usa? O forse più probabilmente perché, quando si è nipote del creatore del lattaio Tevyie, si sa già da bambini che da grandi si vuole essere scrittori? Ci piace pensare che fu per tutte e due le cose. Certo è che quella bimba di quattro anni è riuscita a diventare un personaggio amato per la sua cultura, la sua dedizione all’insegnamento, la sua verve nella scrittura e il suo spiccato senso dell’umorismo. E a tutt’oggi, alla venerabile età di 101 anni, Bel riesce ancora a essere in splendida e lucida forma.
Una vita per la scrittura
La vita di Bel Kaufman è avventura allo stato puro, fin dalla sua giovane età. Nata nel 1911 a Berlino da genitori ebrei russi, Bel si trasferisce a Odessa e poi a Kiev, dove vive gli anni della Rivoluzione Russa fino a quando, all’età di cinque anni, nel 1916, muore suo nonno Sholem Aleichem. I ricordi del celebre nonno non sono molti, ma quei pochi sono molto nitidi. «Mi ricordo la sua risata, la sua mano quando camminavamo. Lui era solito dire che più stretta mi tenevo alla sua mano, meglio avrebbe scritto».
È di questo periodo anche la sua primissima opera scritta, una poesia composta quando aveva solo sette anni: “Corpi morti erano congelati in posizioni particolari nelle strade -recitava il testo-. La gente mangiava pane fatto di bucce di piselli, perché non c’era farina”. Di quegli anni in Russia ricorda un episodio. «Stavo portando a passeggio il mio fratellino nella carrozzina -dichiara in un’intervista a Vogue America-, e due donne con le giacche in cuoio si avvicinarono a noi, mi misero mio fratello fra le mie magre braccia e spinsero via la carrozzina. “Anche noi abbiamo bambini”, dissero. La nostra famiglia era nemica del governo non solo perché eravamo ebrei, ma anche perché eravamo borghesi».
All’età di 12 anni, Bel emigra con la famiglia negli Stati Uniti e si stabilisce a New York. È qui che comincia a insegnare e, contemporaneamente a scrivere per Esquire, con il nome di Bel Kaufman. «Il mio agente mi disse di fare lo spelling del mio nome come se fosse B-E-L, in modo che suonasse maschile -continua Kaufman-. Lo feci, e fui la prima donna a essere pubblicata su Esquire. Da allora rimase il mio nome per sempre».
Nel 1965 pubblica la sua prima novella, Up the Down Staircase, ispirata alla sua esperienza di immigrata che diventa insegnante nei licei di New York: un vero successo, che rimane nella classifica dei bestsellers del New Yorker per ben 64 settimane, e da cui viene anche tratto un film. Nel 1969 pubblica Love, etc… e, negli anni seguenti, molti altri racconti.
La scrittura è dunque una parte fondamentale della vita di Bel Kaufman, una passione di cui non può fare a meno. «A me non piace scrivere; in realtà, io odio scrivere, e farei volentieri qualcos’altro -confessa-. Ma la gioia arriva quando, quasi mio malgrado, arrivo vicino a quello che voglio dire. Allora una frase o un’idea balzano fuori dalla pagina».
Sarà forse anche per questo che tutt’oggi è impegnata nella scrittura del suo ultimo libro, Dear papa, dedicato al suo caro nonno. «Non gli ho mai risposto alla lettera che mi scrisse quando avevo quattro anni -dichiara-. Lo sto facendo adesso».
Fin dall’inizio, la sua carriera di scrittrice va di pari passo con quella di insegnante: ad animarla c’è la profonda convinzione dell’importanza di trasmettere valori e messaggi in bottiglia ai più giovani. Insomma, un monumento all’arte pedagogica di insegnare.«La prima volta che ho avuto degli alunni davanti a me -commenta- ho capito che dovevo dare a loro qualcosa di interessante e di valore, qualcosa che forse avrebbero ricordato per tutta la vita. Non ho mai perso questo sentimento». È proprio questa forte motivazione -che coltiverà per tutta la vita-, ad aiutarla ad affrontare le prime difficoltà e a superare gli esami per diventare insegnante nei licei, difficoltà dovute al suo accento russo. «La prima volta che ho fatto un esame, ho passato i test scritti con il massimo dei voti, ma fui bocciata agli orali a causa della mia ‘melodia straniera’ (non parlarono esplicitamente di ‘accento’). Così, mentre lavoravo nei licei come sostituta, seguii molti corsi di oratoria, per liberarmi dalla ‘r’ rotante e dall’intonazione slava».
Inutile dire che riuscì a superarli e a svolgere una brillante carriera di insegnante in importanti scuole di New York, raggiungendo un traguardo da Guinness dei primati: 80 anni passati a insegnare. E ancora più sorprendente è che, a 99 anni, riceve la carica di professore aggiunto all’Hunter College di New York, dove aveva studiato da giovane e poi lavorato come docente. Questa volta, però, per insegnarvi un altro tesoro – oltre a quello della scrittura – avuto in eredità dal nonno Sholem Aleichem: l’umorismo ebraico.
A tutto witz
«Un francese, un tedesco e un ebreo entrano in un bar. Il francese dice: ‘Sono stanco e ho sete, devo avere del vino’. Il tedesco dice: ‘sono stanco e ho sete, devo avere una birra’. L’ebreo dice: ‘sono stanco e ho sete, devo avere il diabete’». Questa è solo una delle tante freddure tipicamente ebraiche che bel Kaufman racconta agli studenti del corso di umorismo ebraico all’Hunter College, cercando di fare capire loro quanto l’umorismo ebraico sia prima di tutto un meccanismo di difesa, che risale al passato vissuto negli shtetl e nella povertà, nell’odio e nell’infamia. «Noi ebrei parliamo di noi stessi in modo peggiore di quanto non farebbero gli altri». Oggi Bel non insegna più ed è impegnata nella scrittura del libro dedicato al nonno. Ammette con felicità di potersi godere la vita. «Posso fare quello che voglio. Riposare, stare con la mia famiglia. Sono felice, ho 101 anni. Come ci sono arrivata? Deve essere successo gradualmente, mentre non stavo guardando».
Accanto a lei, il suo secondo marito Sidney J. Gluck, direttore del Sholem Aleichem Memorial Foundation, arzillo 94enne. «Gli piacciono le donne più vecchie…», dice ridendo sotto i baffi.