Combattere antisionismo e antisemitismo nel mondo LGBT e queer. Intervista a Yuri Guaiana

Personaggi e Storie

di Nathan Greppi
Già da prima dei massacri del 7 ottobre e della guerra scoppiata tra Israele e Hamas, vi è da anni un problema nell’associazionismo per i diritti delle categorie LGBT, dove alcuni movimenti di estrema sinistra tendono ad abbracciare posizioni antisioniste o persino antisemite. E se gli si fa notare che in Israele omosessuali e trans godono di molti diritti mentre nelle teocrazie islamiche vengono perseguitati, accusano lo Stato Ebraico di “pinkwashing”, ossia di usare la loro causa per coprire i propri presunti crimini.

Ma ci sono anche attivisti LGBT che da anni combattono una doppia battaglia, per affrontare sia l’omofobia che l’antisionismo. È il caso di Yuri Guaiana, in passato presidente dell’Associazione Radicale Certi Diritti (che ha preso parte alla recente manifestazione a Roma contro l’antisemitismo) di cui oggi è segretario, e vicepresidente del Municipio 2 di Milano dal 2011 al 2016. Guaiana ha anche collaborato con Radio Radicale e Huffpost Italia, dove l’11 dicembre ha pubblicato un editoriale per denunciare la presenza di antisemiti nei movimenti queer.

Come viene visto, nel mondo LGBT, il conflitto in corso? Vi è una situazione analoga a quella di Non una di meno, o è diversa?

Il mondo dell’associazionismo LGBT, così come quello del femminismo, è molto variegato e complesso. In generale, questo associazionismo si rifà ai valori dell’antifascismo, e tuttavia, quello d’Israele è sicuramente un tema che crea delle divisioni tra i vari soggetti. Ci sono persone e gruppi con opinioni divergenti in politica estera. Quello che però ho trovato preoccupante, è che ci sono state manifestazioni con prese di posizione e slogan che coniugano antisionismo e antisemitismo.

Situazioni simili ne abbiamo viste a Milano e in altri contesti; anni fa, un nostro compagno venne aggredito al Pride di Milano per aver sventolato la bandiera d’Israele. Ma accade anche sui social media, dove ci sono influencer che veicolano slogan come “From the river to the sea”, e che rivelano una scarsa conoscenza della realtà. Questo non avviene tanto nelle organizzazioni LGBT più istituzionalizzate, quanto in certi movimenti della sinistra radicale, che sostengono i diritti LGBT ma hanno atteggiamenti violenti in altri ambiti.

Nel suo articolo sull’Huffington Post, riconduce questa tendenza alle nuove teorie queer e alla politica dell’identità. Cosa significa?

A mio parere, l’elemento più preoccupante nel movimento LGBT è l’introduzione di queste teorie, che sostanzialmente hanno l’ambizione di diventare delle ideologie come lo sono state il comunismo e il fascismo. Queste teorie, che vanno dalla critical race theory al decolonialismo e alla teoria queer, fanno tutte parte di un sistema teorico che tende a semplificare la realtà al fine di piegarla e renderla coerente con le loro finalità politiche.

In tal modo, facilitano anche la diffusione dell’antisemitismo, perché interpretano la storia in modo tale che l’Occidente “bianco” appaia responsabile di ogni male. E quindi, i bianchi sarebbero dipinti come gli oppressori e tutti gli altri come gli oppressi. In questa piramide del vittimismo, che vede in cima gli oppressori, ci starebbe Israele in quanto avamposto occidentale in Medio Oriente, e come tale simbolo contemporaneo del colonialismo. E così, in un cortocircuito logico, gli ebrei israeliani diventano i “bianchi” per eccellenza, poco importa se non tutti gli ebrei sono bianchi.

La politica dell’identità è chiaramente razzista, perché tende a ingabbiare le persone in identità predefinite, attribuendo loro ruoli preconfezionati. Per cui, il colore della pelle e l’orientamento sessuale dovrebbero definire tutto ciò che sei, compresi il tuo pensiero politico e la tua visione del mondo.

Nel 2017, lei è stato arrestato in Russia per aver protestato in difesa dei gay perseguitati. Che differenza c’è su questi temi tra l’Occidente e le autocrazie illiberali?

Negli ultimi anni si sta registrando, a livello internazionale, un utilizzo geopolitico dei diritti LGBT a fini propagandistici, anche in conflitti armati. Come la Guerra in Ucraina, dove la Russia ha giustificato l’invasione anche con i discorsi propagandistici di combattere l’avanzata delle perversioni occidentali.

In generale, si sta creando una demarcazione tra paesi democratici che sposano l’idea di una società aperta, dove gli individui sono liberi di vivere la propria vita come vogliono, e regimi autoritari che invece tendono a limitare le libertà individuali, a partire dalle libertà sessuali. L’elemento scatenante di questa crociata, in Russia come in Cina, è motivato anche dal calo demografico: in Russia, si sostiene che per risolvere il problema occorra attuare una serie di politiche restrittive verso le libertà individuali e recuperare i valori tradizionali. Un’altra ragione è che certi regimi hanno iniziato da anni ad attaccare sempre di più il concetto dei diritti umani, visti come un valore non più universale ma solo occidentale.

Con l’Associazione Certi Diritti, avete preso parte alla recente manifestazione “No Antisemitismo No Terrorismo” a Roma. Prenderete parte ad altre iniziative contro l’antisemitismo prossimamente?

Assolutamente sì. Come Certi Diritti ci siamo impegnati spesso sul tema: ad esempio nel 2017, assieme all’Associazione Milanese Pro Israele, abbiamo invitato al Teatro Parenti di Milano esponenti del movimento LGBT israeliano, che hanno raccontato le loro attività. Abbiamo raccontato delle realtà che aiutano i gay palestinesi costretti a scappare dalle loro case, riportando i fatti, anche per dissipare la falsa idea secondo cui Israele utilizzerebbe questi temi per fare propaganda e pinkwashing.

A Roma, abbiamo aderito con piacere all’invito dell’associazione LGBT ebraica Magen David Keshet Italia di partecipare alla manifestazione, e mi stupisco che altre realtà possano averla considerata una manifestazione divisiva. Stiamo pensando di organizzare dei corsi rivolti alla comunità LGBT sull’antisemitismo; e anche sull’islamofobia, anche se io preferisco usare il termine “odio anti-musulmano”, perché penso che in una società democratica le religioni si debbano poter criticare.