di Ilaria Myr
«Siamo di fronte a una nuova variante dell’antisemitismo. Un antisemitismo politico che ha come sfondo la demonizzazione di Israele, trasformato in Stato paria, messo in discussione nei suoi fondamenti e nel suo diritto di esistere. Nel nuovo antisemitismo, le proiezioni demoniache che un tempo erano rivolte contro gli ebrei come individui, e come collettività, sono oggi proiettate sullo “Stato degli ebrei”, che diventa “l’Ebreo” degli Stati. Uno Stato che non è giudicato per quello che fa, ma per il fatto di essere». Sono parole amareggiate quelle di David Meghnagi, psicanalista, docente universitario e assessore alla cultura dell’Ucei, che da anni segue con preoccupazione l’evoluzione dell’odio antiebraico in Europa e che approfondirà questo tema di grande attualità mercoledì 27 giugno al Teatro Franco Parenti di Milano, nell’ambito di alcuni appuntamenti con Claudio Martelli sul tema “La resistibile ascesa del nazionalpopulismo”.
«Uno degli aspetti più preoccupanti del nuovo antisemitismo è il ritardo con cui viene affrontato dalla cultura democratica, che ha elaborato degli strumenti per combatterlo nelle sue versioni più vecchie, ma è terribilmente in ritardo nell’affrontare la sua attuale versione – spiega a Mosaico -. Nelle settimane precedenti il conflitto del giugno 1967, il mondo tremò per il futuro di Israele. Un piccolo paese, accerchiato da ogni parte. Le piazze del mondo arabo, inneggianti alla sua distruzione. Per non parlare dei pogrom contro le minoranze ebraiche indifese. Gli ebrei tremarono e Il mondo si commosse all’idea che il piccolo David sopravvissuto alla catastrofe della Shoah, potesse essere annientato, nel rifugio che si era dato. Uscito vittorioso da una guerra provocata dalla folle scelta di Nasser di chiudere lo stretto di Tiran e di espellere i soldati delle Nazioni Unite che vigilavano sui confini dell’armistizio del ’48-49, Israele vide capovolgersi nel giro di pochi anni l’immagine positiva della rinascita e del riscatto, che tanti giovani aveva fatto sognare negli anni cinquanta e sessanta, in quella opposta di uno “Stato oppressore”.
La nuova narrativa non avviene nel vuoto. È il frutto di una costruzione politica, che avviene per fasi ed è il frutto di un’alleanza fra il movimento comunista internazionale, il movimento terzomondista e quello panarabo. Nella logica delle rappresentazioni, che si andranno imponendo e faranno da sfondo al nuovo antisemitismo, Israele è uno stato “artificialmente creato” per “dominare” i popoli della regione. Il salto si ha dopo la guerra del Kippur. L’ascesa degli stati petroliferi, il loro ingresso nella scena internazionale come potenze finanziarie, detentrici della più importante materia prima per il funzionamento delle economie occidentali, cambia per intero il quadro. Nel gioco delle rappresentazioni delle immagini, Israele diventa il capro espiatorio di una perversa logica di scambi simbolici, in cui l’Europa può liberarsi dal fardello delle sue colpe coloniali, mentre i regimi arabi autoritari possono presentarsi come “anticoloniali” e “antimperialisti”. In questa nuova alleanza che ha come sfondo per l’Europa la necessità di rifornirsi di petrolio, le colpe del colonialismo “diventano” le “colpe” di Israele, mentre il mondo arabo può ripresentarsi come immacolato, indipendentemente dal fatto che le minoranze sono perseguitate, la ricchezza è concentrata in poche mani e a dominare sono le dittature militari».
Le migrazioni importano l’odio antiebraico musulmano
Il quadro si complica ulteriormente con le grandi ondate migratorie che portano in Europa una massiccia presenza di musulmani, e con essi l’ostilità antiebraica del mondo arabo, evidente in molti episodi antisemiti degli ultimi anni. «Il risultato di questo mix esplosivo è lo scenario in cui stiamo vivendo: Israele viene sempre presentato come Stato criminale che attacca ingiustamente il povero popolo palestinese – e non, invece, come una nazione sotto un’offensiva politica e militare dell’organizzazione terroristica Hamas. Nei media va affermandosi in modo trasversale una narrazione falsa della Storia, in cui la nascita di Israele sarebbe il risultato di un’invasione in cui dal nulla un popolo estraneo alla regione, ne caccia uno che è “nativo” e “originario”, altro, e che il conflitto arabo israeliano del ‘48 fu ordito per espellere la popolazione araba, omettendo volutamente che fu il mondo arabo a rifiutare la proposta dell’Onu di spartizione del territorio del Mandato britannico in due Stati per due nazioni che avrebbero dovuto vivere in pace; che Israele accettò il piano di spartizione e furono gli Stati della Lega araba ad attaccare per distruggerlo. Nel corso della guerra del 1948-49, Israele perse l’uno per cento della sua popolazione, una percentuale pari ai morti italiani nel corso della Prima guerra mondiale. Nel decennio precedente c’erano state le leggi razziste in Europa, il Libro Bianco con cui si bloccava l’immigrazione ebraica nell’unico paese al mondo dove gli ebrei braccati in ogni luogo non sarebbero stati respinti alla frontiera e poi la Shoah…. In un sussulto di vita, in cui a dominare è stata la speranza e la visione di un futuro possibile, Israele ha creato una vibrante democrazia».
Il silenzio sul grande esodo degli ebrei dai Paesi arabi
A questo si aggiunga il totale silenzio che regna sull’esodo silenzioso di 850.000 ebrei fuggiti fra il ‘48 e il ’58, dai Paesi arabi. Per non parlare dei pogrom. «La maggioranza degli ebrei fuggiti dal mondo arabo, ricostruì la sua esistenza spezzata in Israele. Sublimando il dolore, trasformarono la fuga in esodo, la vita nei campi di raccolta in una nuova rinascita. L’esodo degli ebrei dal mondo arabo fu un esodo silenzioso, la fuga invisibile. A differenza di profughi palestinesi, non erano parte del conflitto scatenato dagli eserciti arabi per impedire la nascita di Israele. Gli ebrei del mondo arabo erano delle minoranze oppresse. Erano ostaggi in un conflitto cui non avevano partecipato, che si svolgeva a centinaia e migliaia di kilometri di distanza». Dall’altra parte, invece, c’è il mondo arabo, che ha per decenni impedito qualunque soluzione che non fosse la fine di Israele, rendendo il dramma dei profughi irrisolvibile, facendoli diventare profughi per “sempre”, e creando una situazione esplosiva e ingovernabile.
«La delegittimazione morale di Israele, cui assistiamo -spiega Meghnagi -, alimenta l’odio antiebraico, perché il mito di Israele come Stato che ha trasformato le vittime in carnefici è alla base del nuovo antisemitismo. Non è in discussione il diritto dovere alla critica di questo o quel governo politico in Israele, come in ogni altro luogo nel mondo. Non è in discussione la necessità di trovare una composizione politica, di conflitti che si trascinano da decenni, e che hanno molteplici sfaccettature. Il diritto alla critica è il sale della democrazia. Come il sentimento della pietas è a fondamento della convivenza umana. Il fatto di doverlo ripetere ogni volta che si parla del conflitto arabo israeliano, è l’indice di qualcosa che non funziona. Abbiamo bisogno in primo luogo di curare le parole malate. Le guerre nella regione, l’offensiva dell’Iran e la sua corsa al nucleare, che potrebbe essere imitata da altre potenze della regione. Proviamo a immaginare che cosa diventerebbe il Vicino Oriente se dopo l’Iran, provassero a dotarsi di armamenti nucleari, la Turchia, l’Araba Saudita e poi l’Egitto… Uno scenario da incubo che va affrontato con fermezza, evitando derive, misurando e curando le parole».
Come dunque uscire da questa drammatica impasse? «Innanzitutto riconducendo il dibattito sul conflitto mediorientale alle sue vere origini storiche – dice lo studioso -, e soprattutto guarendo le parole ‘malate’ usate in questo contesto: una necessità, questa, imprescindibile, tanto più di fronte agli attuali sviluppi”».