“Disposti a tutto pur di non dover lasciare le proprie case”: chi sono gli ultimi novemila ebrei residenti in Iran. La cover di Bet Magazine di aprile

Personaggi e Storie

di David Zebuloni

Come si vive da ebrei nel Paese degli Ayatollah? Orgogliosi della propria cultura, affezionati a tradizioni millenarie, legati visceralmente a una terra che in tanti hanno lasciato ma che continua a tenerli stretti a sé. E chi ha scelto di restare in Iran continua a sperare in giorni felici. Così, per sopravvivere, gli ebrei vivono scissi fra due polarità: quella persiana e quella ebraica. Negando (pubblicamente) Israele. Tra mille contraddizioni e lacerazioni, tre voci raccontano come vivere e fuggire da Teheran

«Ho ancora un desiderio – mi ha sussurrato nell’orecchio mio nonno, non molto tempo fa -. Tornare a casa, visitare l’Iran un’ultima volta», ha poi aggiunto con gli occhi socchiusi e un tono nostalgico che decisamente non gli appartiene. Mio nonno, oggi novantenne, è nato nella città di Mashad, da cui è fuggito in circostanze non proprio felici, dopo anni bui di umiliazioni e persecuzioni. Quando ho cercato di capire il motivo di tanta nostalgia, lui mi ha sorriso e ha detto che ci sono cose che non posso capire. E ha ragione. L’ossessione che molti ebrei iraniani hanno della loro prima patria, è una cosa che fatico decisamente a capire. D’altronde, come si può amare un luogo che ti ha rigettato brutalmente? Come si può avere nostalgia della povertà? Della paura? Delle piccole e grandi mortificazioni quotidiane?

Eppure, una cosa è certa e assolutamente innegabile: forse più di ogni altro ebreo fuggito da casa propria, talvolta verso ignota destinazione, l’ebreo iraniano è il più attaccato al luogo in cui è nato. È il più orgoglioso della sua cultura. Il più affezionato alle proprie usanze millenarie. Non a caso una delle comunità ebraiche più antiche e testarde del Medio Oriente risiede ancora lì, nel paese nemico per eccellenza di Israele. E non ha alcuna intenzione di andarsene.

Per comprendere a fondo la nostalgia di mio nonno e per capire soprattutto i motivi per i quali molti ebrei sono disposti a tutto pur di continuare ad abitare in Iran, mi faccio aiutare da tre personaggi d’eccezione: Beni Sabti, uno dei massimi esperti del regime iraniano e ricercatore presso l’Istituto per la Sicurezza Nazionale (INSS); Maureen Nehedar, cantante iraniana di fama internazionale; e il giovane Gavriel Shem, trasferitosi dall’Iran in Israele appena un anno e mezzo fa. Le storie di Beni, Maureen e Gavriel si intrecciano perfettamente, creando insieme un puzzle affascinante che racconta l’unicità della comunità ebraica in Iran, che oggi conta circa 9.000 persone e innumerevoli contraddizioni.

Ingannati dalla rivoluzione

Sabti, il più anziano del gruppo, è nato a Teheran nel 1972, cioè sette anni prima della rivoluzione islamica, e ricorda chiaramente come il suo paese amato sia cambiato da un giorno all’altro davanti ai suoi occhi. Suo padre lavorava come contabile in un ospedale e sua madre lavorava come direttrice presso un orfanotrofio. «Nei giorni turbolenti della rivoluzione, non uscivamo di casa – racconta -. Salivamo sui tetti e guardavamo le battaglie. Non capivamo esattamente chi fosse il buono e chi fosse il cattivo, ma l’idea che il debole potesse vincere il forte ci affascinava. Così, quando vedevamo i manifestanti sopraffare i soldati dello Scià, applaudivamo emozionati. Per noi bambini, tutto sembrava un film. Tuttavia, presto capimmo chi fosse il buono e chi invece il cattivo. I rivoluzionari, capeggiati da Khomeini, ci ingannarono. Promisero libertà e prosperità, e noi, come molti ingenui iraniani, abboccammo. Presto la realtà ci è esplosa in faccia».

A differenza di decine di migliaia di ebrei che lasciarono l’Iran proprio nell’anno della rivoluzione, i genitori di Beni decisero di restare a Teheran poiché credevano che il loro rispettabile lavoro li avrebbe protetti. «Erano anni difficili e oscuri – ricorda con dolore -. Un giorno gli uomini di Khomeini mi fermarono e mi rasarono a zero in mezzo alla strada. Barba e capelli. Ridevano esilarati. Alcuni anni dopo, quando arrivai in Israele e vidi le immagini della Shoah, capii quanto fosse grave l’umiliazione che avevo subito. Non voglio fare paragoni, ma l’odio è odio. L’umiliazione è umiliazione». Solo nel 1987, otto anni dopo la rivoluzione, quando suo padre fu intenzionalmente investito da una jeep, solo perché ebreo, davanti all’ospedale dove lavorava, i genitori di Beni capirono che era ora di fuggire.

Salvi in Israele, nonostante le difficoltà

La storia di Maureen è molto diversa. Nata nel settembre 1977, ovvero un anno prima della rivoluzione, venne portata in Israele non appena Khomeini salì al potere. A differenza dei genitori ottimisti di Sabti, i genitori di Nehedar capirono subito che in Iran non avrebbero potuto garantire un futuro sicuro ai loro figli. «La mia famiglia si è lasciata tutto alle spalle: i soldi, la casa, i gioielli. Siamo arrivati in Israele con due valigie piene di vestiti e alcune cassette – spiega la cantante con voce rotta -. L’inizio, in Israele, fu difficile. Vivevamo nella povertà. Tuttavia i miei genitori mi hanno insegnato a camminare a testa alta e a non incolpare nessuno delle mie mancanze. Dicevano sempre che chi lavora sodo, alla fine ottiene tutto».

 

Partire dall’Iran dopo il 7 ottobre

La storia di Gavriel è forse la storia di tutta la comunità ebraica che ancora abita in Iran. Nato in Isfahan nel 2002, cullato dai racconti di un paese libero che non ha mai conosciuto, in cuor suo ha sempre sognato di lasciare l’Iran per trasferirsi in Israele. Così, l’8 ottobre, il giorno dopo la grande strage compiuta da Hamas, Gavriel e sua sorella hanno preso la decisione più cruciale della loro vita. «Guardavamo le immagini del massacro al telegiornale e ci siamo detti: o ce ne andiamo ora, o restiamo in Iran per sempre – racconta -. Così abbiamo deciso di partire. Abbiamo salutato tutti e siamo saliti sull’aereo diretto a Istanbul». Quattro giorni dopo sono arrivati per la prima volta in vita loro nella Terra Promessa: lo Stato d’Israele.

«Oggi non posso più tornare in Iran, ed è una delle ragioni per le quali molti ebrei non vogliono lasciare la loro casa: sanno che se non si trovano bene in Israele, non hanno dove tornare. È una decisione irreversibile – sottolinea Gavriel -. I miei genitori non volevano che io e mia sorella partissimo. Loro sono rimasti là, intrappolati in quella triste realtà, mentre noi stiamo costruendo una nuova vita. Non è facile. È da un anno e mezzo ormai che non li vedo. Ho festeggiato il mio compleanno con loro al telefono, una situazione del tutto innaturale. Ancora oggi cerco di accettare il fatto che la mia mamma e il mio papà non saranno con me nei momenti importanti della mia vita».

L’Iran non ti lascia mai

Su una cosa Beni, Maureen, Gavriel e persino mio nonno sono d’accordo: puoi lasciare l’Iran, ma l’Iran non ti lascia mai. «Gli ebrei che vivono là credono ancora che le cose presto cambieranno – spiega Gavriel con l’autorità di chi quella realtà l’ha vissuta in prima persona, e non sentita raccontare da terzi -. Posticipano il momento della loro partenza di un po’ e ancora un po’ perché dentro di loro sono erroneamente convinti che il regime stia per crollare e che presto torneranno i giorni felici che hanno preceduto la rivoluzione. Che a breve potranno continuare la loro vita interrotta dal punto esatto in cui l’hanno fermata quasi cinquant’anni fa».

E non è tutto. «Alla fine, c’è qualcosa che accomuna tutti gli ebrei persiani. Tutti, compresi quelli che vivono in Israele da cinquant’anni e non vorrebbero abitare in nessun altro luogo al mondo – sottolinea Gavriel -. Ecco, tutti sentono la mancanza della casa in cui sono cresciuti. A tutti manca quel calore. Quelle usanze dalle radici così antiche. Quel folclore. Quella cultura ineguagliabile di ospitalità e di condivisione. Di dare agli altri anche quando non hai per te stesso».

Per molti può sembrare un paradosso inseguire il luogo da cui si è fuggiti, ma per Maureen non vi è nulla di più naturale. «Ho sempre pensato che sarei diventata una cantare lirica e che mi sarei occupata di musica classica, ma poi la nostalgia ha cominciato a farsi sentire e ho deciso di ridare vita a quella musica persiana che mi scorre nelle vene – dice visibilmente emozionata -. La mia è la nostalgia per qualcosa che non conosco, per un mondo che appena ho vissuto, ma che è sempre con me – aggiunge dopo una breve pausa -. Ancora oggi non so se questa nostalgia sia per un luogo fisico, ovvero per l’Iran, o per un luogo ideale dove ti senti parte di un microcosmo che diventa casa e famiglia, ovvero la comunità ebraica nella quale sono nata. Forse ciò che mi manca è proprio la casa dei nonni. Le loro radici, che sono anche le mie. Una cosa è certa: più esploro il mio passato, e più questo si fa doloroso. Mi sembra di scavare una ferita aperta, ancora sanguinante. Tuttavia, non riesco a smettere. Non voglio smettere. Questo è il mio passato. Questa sono io».

A differenza degli altri due, Sabti si mostra molto meno nostalgico e molto più critico nei confronti di quella comunità che accetta tutto pur di non lasciare la propria patria. «Gli ebrei dell’Iran sono ostaggi del regime a tutti gli effetti – dichiara intransigente -. Negli ultimi mesi stanno manifestando contro Israele, a favore di Hamas e di Hezbollah. Hanno anche scritto una lettera di ringraziamento a Nasrallah per aver bombardato Tel Aviv e un comunicato di condanna per l’uccisione di Ismail Haniyeh. So che è tutta una sceneggiata, che non possono fare altrimenti poiché verrebbero appesi in piazza, ma condannare Israele per continuare a vivere in Iran a mio avviso è un errore clamoroso».

Proprio lui, Beni, l’unico del gruppo che ha vissuto gli anni felici che hanno preceduto la rivoluzione, si mostra più intransigente dei suoi connazionali. «Gli ebrei iraniani si aggrappano a un ricordo passato di un mondo che non esiste più. Io c’ero, e porto sempre nel cuore quel luogo meraviglioso in cui sono cresciuto, ma so che vi sono linee rosse che non vanno oltrepassate. Anche ai miei tempi ci veniva chiesto di dichiarare fedeltà al regime e di condannare Israele, ma sapevamo che vi erano alcune cose che, qualunque cosa accadesse, non avremmo mai detto o fatto. Sapevamo anche che potevamo prendere e fuggire, proprio come possono fare quegli ultimi novemila ebrei che abitano lì, ancora oggi».

Le dure parole del ricercatore fanno riflettere, ma più che provare rancore o risentimento, mi strugge il dramma che sta vivendo questa piccola comunità lacerata tra due mondi. Da un lato il desiderio di non cancellare oltre duemila anni di storia ebraica-iraniana. Di non rinnegare le proprie origini per via di un regime sadico e dittatoriale. Dall’altro, il prezzo più caro che un ebreo possa pagare: la negazione di se stessi. D’altronde, anche se pubblicamente gli ebrei dell’Iran si mostrano entusiasti di sostenere il regime degli Ayatollah, da diverse testimonianze emerge che segretamente pregano per il benessere dello Stato di Israele e per la salute dei soldati israeliani feriti in guerra contro il terrorismo. Secondo queste testimonianze, la maggior parte degli ebrei iraniani sono profondamente sionisti, ma devono fingere di non esserlo per non andare incontro alla morte certa. Un prezzo che sono disposti a pagare pur di non rinunciare al luogo che hanno tanto amato, ma che oggi esiste solo nei loro ricordi.