di Marina Gersony
Questa è una di quelle notizie che non vorresti mai dover leggere. Una tragedia che gela il sangue e lascia senza fiato. Shirel Golan, una giovane di appena 22 anni, si è tolta la vita. Lo ha fatto il giorno del suo compleanno, un giorno che avrebbe dovuto essere di gioia e di felicità, ma che si è trasformato nel suo ultimo istante di vita. Sopravvissuta miracolosamente al massacro di Hamas durante il Nova Festival, Shirel non è riuscita a sopravvivere ai fantasmi che quella terribile esperienza le aveva lasciato.
Era riuscita a sfuggire all’orrore di quel 7 ottobre, quando il festival vicino al Kibbutz Re’im è stato trasformato in un incubo di sangue e fuoco. Ma se il suo corpo è sopravvissuto, la sua anima è rimasta intrappolata in quel giorno maledetto. A 22 anni ha deciso di mettere fine al tormento, nella sua casa a Porat, vicino a Netanya. Il suo cellulare è stato trovato pieno di messaggi di auguri. Messaggi che, per chi li ha scritti, avranno per sempre un peso insopportabile.
Quel 7 ottobre Shirel e il suo fidanzato, Adi, hanno visto la morte negli occhi. Sono riusciti a fuggire da un assalto senza pietà, cercando disperatamente di mettersi in salvo. Raggiunta un’auto, hanno tentato di fuggire, ma la loro corsa è stata fermata dal terrore che li circondava. Hanno dovuto abbandonare tutto e nascondersi sotto un cespuglio per ore, nella speranza che il destino non li abbandonasse proprio in quel momento. Alla fine, è stato un agente di polizia beduino, Remo Salman El-Hozayel, a salvarli, requisendo un veicolo per mettere in salvo chi poteva. Ma, come spesso accade, salvarsi fisicamente non significa salvarsi dentro, nel cuore e nell’anima.
Eyal, il fratello di Shirel, è sconvolto. Il dolore e la rabbia si intrecciano nelle sue parole: «Lo Stato di Israele ha ucciso mia sorella due volte. Una prima volta, a ottobre, quando ha distrutto la sua mente, e una seconda volta oggi, il giorno del suo compleanno, quando l’ha abbandonata a se stessa. Mia sorella, come tutti i sopravvissuti del Nova Festival, è stata lasciata sola con i suoi demoni». La sua accusa è durissima, rivolta direttamente a un sistema che, a suo dire, non è stato in grado di fornire l’aiuto necessario a chi, come Shirel, era troppo fragile per affrontare da sola i mostri che la perseguitavano dopo quel massacro.
«Non voleva uscire di casa, era persa dentro se stessa», continua Eyal, e nelle sue parole si sente tutta l’impotenza di chi ha cercato, invano, di salvare la persona che amava. Per oltre un anno, Shirel ha convissuto con un disturbo post-traumatico che l’ha divorata dall’interno, lentamente, un pezzo alla volta. La tragedia del 7 ottobre non è mai finita per lei. Ha visto amici brutalmente uccisi, altri rapiti, e non è riuscita a superare quel trauma. Con il passare dei mesi, le sue condizioni psicologiche sono andate peggiorando. Eyal e la sua famiglia hanno fatto tutto ciò che potevano. «Non ci siamo mossi da lei nemmeno per un attimo», racconta. Ma nulla è bastato. Non c’erano parole, né gesti, che potessero riportare Shirel indietro da quel baratro in cui era caduta.
La famiglia ha provato a tutto pur di salvarla, convincendola anche a cercare aiuto psicologico. Ma Shirel, come spesso accade a chi vive un trauma così devastante, non riusciva a trovare le forze per aprirsi. Secondo alcune cronache, le uniche persone con cui è riuscita forse a condividere parte del suo dolore, sono stati altri sopravvissuti come lei, membri dell’associazione Tribe of Nova, fondata da chi, come Shirel, è stato segnato per sempre da quella giornata di terrore. Ma quello che è successo davvero nel profondo del suo cuore nessuno lo saprà mai.
Il giorno del suo compleanno, la madre aveva organizzato una gita a Gerusalemme per Sukkot. Una piccola speranza di distrarla, di strapparla ai suoi pensieri bui, almeno per un giorno. Ma quando Shirel non ha risposto alle chiamate e ai messaggi, l’angoscia ha iniziato a crescere. È stato il suo fidanzato, Adi, a trovarla. In quell’appartamento, silenzioso, senza vita. La tragedia si era compiuta.
«L’ultima volta che l’ho vista è stato giovedì scorso», racconta il fratello, «ho cercato di farla parlare, di capire cosa sentisse, ma si è chiusa ancora di più. Non era pronta a condividere, non ce l’ha fatta». Il dolore nelle sue parole è palpabile. È il dolore di chi ha tentato tutto, ma ha visto sfuggire via la persona che amava. «Mia madre ha dovuto prendere la pensione anticipata per poter stare con lei. Non l’abbiamo mai lasciata sola, tranne oggi. Oggi, e lei ha deciso di andarsene».
Eyal lancia un grido disperato: «Lo Stato deve svegliarsi. Se non cambia qualcosa, vedremo altri sopravvissuti prendere la stessa terribile decisione». La sua è una richiesta di aiuto per tutti coloro che, come Shirel, non ce la fanno da soli. Non vuole che altre famiglie vivano lo stesso strazio.
Dal Ministero del Welfare e dei Servizi Sociali è arrivata una risposta formale, che cerca di rassicurare, ma che suona vuota alle orecchie di chi ha appena perso una persona cara. Si parla di assistenza, di supporto, di linee telefoniche attive 24 ore su 24 per chiunque abbia bisogno. Ma per Shirel, ormai, è troppo tardi. Come riporta il Times of Israel, il disturbo da stress post-traumatico è una condizione complessa, spesso difficile da curare. Non bastano linee di assistenza o pacchetti di supporto, servono risorse, persone, un sistema che possa veramente aiutare chi soffre. Un programma difficile da attuare in un Paese alle prese con un’infinità di problemi.
Secondo il professor Yair Bar-Haim, dell’Università di Tel Aviv, fino a 30.000 israeliani potrebbero sviluppare il disturbo post-traumatico a seguito degli attacchi del 7 ottobre e dei conflitti che ne sono seguiti. Un’ondata di dolore che rischia di travolgere un sistema sanitario già al limite. E, purtroppo, Shirel è solo la prima di tante vittime che non riescono a trovare pace.
(Foto: Shirel Golan_X)