di David Zebuloni
Parla Aharon Barak, sopravvissuto alla Shoah, un mito, oggi tra i padri nobili del paese. È una delle figure più discusse, contestate, venerate del Paese. Autorevole, considerato uno tra i più grandi giuristi del suo tempo, ex Presidente della Corte Suprema, a 88 anni Aharon Barak è una leggenda vivente. A tal punto che Benjamin Netanyahu (che non lo ama) gli ha chiesto di rappresentare Israele alla Corte Internazionale dell’Aja: “Accusarci di genocidio è insopportabile, oltre che giuridicamente sbagliato”, spiega in un’intervista esclusiva. E ricorda l’infanzia…
Il professor Aharon Barak è una leggenda. Forse, ad oggi, l’ultima vera leggenda vivente in Israele. Ex presidente della Corte Suprema israeliana, nonché una delle figure più rispettate nel panorama giuridico internazionale, la cui influenza va ben oltre i confini dello Stato ebraico, Barak è colui che di fatto ha formulato gran parte della costituzione su cui si basa oggi il sistema giudiziario israeliano. Cercare di riassumere la sua vita, personale e professionale, risulta essere pressoché impossibile.
Nato in Lituania e sopravvissuto alla Shoah, l’ormai anziano giudice ha dedicato la sua intera vita alla difesa dei principi di giustizia che gli erano stati negati durante gli anni della guerra. Oltre al suo impegno giuridico, Barak è stato anche protagonista di alcuni eventi storici cruciali. Primo fra tutti, l’accordo di pace con l’Egitto, di cui lui scrisse i principi fondamentali e ne condusse i negoziati per conto di Menachem Begin.
Oggi, all’età di 88 anni, nonostante non abbia più alcun titolo ufficiale se non una cattedra ad honorem alla Reichman University, l’ex presidente della Corte Suprema continua ad essere una delle figure più discusse, venerate e contestate del paese. Seppur trascorra gran parte del suo tempo chiuso in casa, il suo volto risulta essere ovunque. Il suo nome, sulla bocca di tutti. Aharon Barak è infatti ritenuto da molti, non solo il più grande giurista della storia moderna, ma un vero e proprio leader dai tratti politici ben definiti. Altrettanti, invece, ritengono ch’egli abbia causato dei danni irreversibili al paese, attribuendo troppo potere al sistema giudiziario e indebolendo drammaticamente il sistema legislativo, ovvero il governo scelto dal popolo. Così, forse contro il suo stesso volere, il giudice in pensione è diventato agli occhi di molti israeliani un simbolo di protesta contro l’attuale governo di destra.
Tuttavia, quando il Sud Africa ha accusato Israele di “genocidio a Gaza”, il premier Benjamin Netanyahu si è rivolto a lui, ad Aharon Barak, il giudice più anziano, più autorevole, più esperto, e gli ha chiesto di mettere da parte le ostilità e volare in Olanda per difendere il suo paese dalle calunnie antisemite. L’anziano giudice ha immediatamente accettato e, con grande sorpresa di alcuni, la sua sola presenza in aula durante l’increscioso processo, ha permesso agli israeliani di sentirsi più sicuri di quanto non lo siano stati dal 7 ottobre in poi. “Se Barak ci rappresenta possiamo stare tranquilli, nessuno oserà contraddirlo”, ripetevano all’unisono i suoi sostenitori e i suoi oppositori negli studi televisivi e nelle strade.
Tornato in Israele, l’ex presidente della Corte Suprema si è rinchiuso di nuovo nel suo silenzio. Intervistarlo, infatti, risulta pressappoco impossibile: Aharon Barak non rilascia interviste né dichiarazioni. Eppure, quando gli ho chiesto di mettere da parte la politica e di raccontarmi la sua infanzia, lui ha accettato senza esitare. Così, il giudice Barak mi ha accolto nel salotto di casa sua a Tel Aviv appena due settimane dopo la morte di sua moglie Elisheva, quasi irriconoscibile poiché stanco, affranto, fragile e vulnerabile.
L’uomo un tempo di ferro, colui che ha saputo vincere tutte le sue battaglie, ora sembra essere sconfitto dal lutto e dalla perdita della compagna di vita per quasi settant’anni. Tuttavia, quando ricorda il suo passato, il giudice d’un tratto si rinvigorisce, si anima, alza la testa e raddrizza le spalle. Punta il dito in aria. Dichiara: «Ero un bambino del tutto privo di diritti, l’esistenza di Israele è per me vitale». Nessuna obiezione vostro onore.
Professor Barak, lei non è solito rilasciare interviste. Le sue dichiarazioni pubbliche degli ultimi anni si contano sulle dite di una mano, eppure ha accettato di incontrarmi e di raccontarmi la sua infanzia. Perché?
Innanzitutto, il mio passato di bambino sopravvissuto è un argomento apolitico e io cerco di essere sempre apolitico. Inoltre, il numero di persone che possono raccontare le proprie memorie della Shoah sta diminuendo sempre più e presto si azzererà del tutto. Pertanto, quando mi hai chiesto di testimoniare l’orrore che ho vissuto, ho ritenuto che fosse opportuno accettare.
E di questo la ringrazio. Torniamo dunque indietro nel tempo. Qual è il suo primo ricordo?
Un ricordo che è strettamente legato alla guerra: il rumore degli aerei tedeschi che volano sopra i cieli di Kaunas. Penso che fosse il mese di giugno del 1941. Ricordo anche i tedeschi invaderci e i russi fuggire. Di fatto, ci furono alcuni giorni in cui a Kaunas non c’erano né russi né tedeschi, così i fascisti lituani fecero il lavoro al posto loro e uccisero centinaia di ebrei. Poi, con l’arrivo dell’esercito nazista, arrivò anche l’ordine di costruire un ghetto in città. Ricordo che misi su un piccolo carro trainato da un cavallo i pochi oggetti che ci permisero di portare. Pochi giorni dopo, io e i miei genitori entrammo nel ghetto di Kaunas insieme ad altri 30.000 ebrei. Avevo otto anni.
Ci fu una selezione?
La prima selezione avvenne qualche settimana dopo il nostro arrivo, quando tutti i prigionieri del ghetto furono chiamati a radunarsi nella piazza centrale che si chiamava, ironia della sorte, “Piazza della Democrazia”. Lì ci attendevano i soldati tedeschi che indicavano destra-sinistra-destra-sinistra e, una volta terminato il processo, presero diecimila ebrei e li uccisero. Così, da 30.000 prigionieri, ne rimasero 20.000. Alla fine della guerra, quando i tedeschi fuggirono, nel ghetto rimasero poche decine di ebrei.
Nell’arco della sua lunga carriera, lei ha dato un nome a molti concetti astratti. Ecco, ha mai trovato le parole capaci di esprimere ciò che ha vissuto nel ghetto?
Il ghetto è una prigione dove vivono delle persone condannate a morte, senza una data di esecuzione. Nel ghetto, la tua vita è appesa a un filo. In ogni istante potresti morire. In ogni istante un soldato nazista potrebbe ucciderti. Tuttavia, il ghetto è anche un luogo in cui vige una solidarietà straordinaria tra i prigionieri. A Kaunas sapevamo che eravamo destinati a morire, quindi cercavamo di vivere in pace fino a quel momento. Avevamo messo in piedi un vero ospedale, con veri medici e vere infermiere. Più avanti negli anni ho anche scoperto che era stato istituito un tribunale nel quale venivano giudicate e mediate le controversie tra i prigionieri, secondo la legge lituana precedente alla guerra.
Come si spiega tutto ciò a un bambino di otto anni?
A me non spiegarono nulla, capii tutto da solo. Tuttavia, in quel periodo credevo ancora di far parte di un gioco. Di una grande avventura. Probabilmente suonerà strano, ma ero un bambino felice. I miei genitori mi coccolavano, si prendevano cura di me, cercavano di non farmi sentire la mancanza di nulla.
Nonostante tutto, non era un bambino triste?
No. Vivevo una realtà triste, ma non ero un bambino triste. Vi furono solo alcuni istanti di grande tristezza, come quando scoprii che i miei nonni erano stati uccisi dai nazisti negli shtetl. Ecco, quello fu un momento davvero straziante.
Era un bambino affamato?
Diciamo che non ero un bambino sazio. Ricordo che una volta, correndo per casa, feci cadere una pentola di minestra che mia madre aveva preparato e che doveva bastarci per tutta la settimana. Quando scoprì cosa avevo fatto, mi diede uno schiaffo fortissimo. Oggi non ricordo più il senso di fame, ma ricordo perfettamente il dolore che mi provocò quello schiaffo. Un dolore non solo fisico.
Si poteva giocare nel ghetto?
Sì, giocavo spesso con gli altri bambini. Molti anni dopo la guerra, nel 1971, quando lavoravo all’ONU, tenni una conferenza all’Università dell’Illinois e un professore di diritto lì presente mi invitò a cena. Così conobbi sua moglie e, durante una piacevole conversazione, mi chiese dove fossi nato. Le dissi che ero nato a Kaunas nel 1936. “Che coincidenza, anch’io sono nata a Kaunas nel 1936”, rispose lei. Le raccontai che ero stato prigioniero nel ghetto e che giocavo con i miei amici accanto al muro che ci divideva dal resto della città. Lei rispose che si ricordava bene quel muro poiché era solita giocare nelle sue prossimità insieme alle amiche. Pensa, due bambini, uno ebreo e una lituana, che giocano vicini, a distanza di pochi metri, senza sapere l’uno l’esistenza dell’altra. Lei libera, io prigioniero. Solo un muro ci separava, nulla di più.
Quando capì dunque che quella che stava vivendo non era un’avventura, ma uno sterminio?
Mio padre lavorava nelle officine del ghetto e spesso mi portava con sé. Mi metteva uno strano cappello in testa e mi faceva indossare delle scarpe con le suole alte per farmi sembrare più grande della mia età. Un giorno un ufficiale tedesco si avvicinò e mi chiese quanti anni avessi. Già allora sapevo di dover mentire, così risposi che avevo 12 anni. Ricordo che mi guardò, mi sorrise, un sorriso strano, complice e al contempo subdolo, e mi lasciò andare. Capii di essere salvo, ma capii anche che in egual modo potevo essere morto. L’ufficiale poteva uccidermi sul posto, ma decise di non farlo. Quello strano sorriso è ancora impresso nella mia mente.
Era più in pericolo rispetto ai suoi genitori?
Assolutamente sì. Nel 1944 i nazisti fecero irruzione nelle case del ghetto e portarono via gli anziani e i bambini sotto i 12 anni, che vennero poi condotti al Forte IV e finiti con un colpo in testa. Mia madre riuscì a nascondermi e salvarmi la vita, ma era chiaro che non potevo più rimanere tra quelle mura. Così, i miei genitori trovarono un contadino disposto ad aiutarci.
Come fecero?
Come dicevo, mio padre lavorava nelle officine del ghetto e produceva vestiti e scarpe per l’esercito tedesco. A fine giornata, tutto ciò che era stato prodotto veniva inserito in grossi sacchi e condotto fuori dal ghetto. Il piano era quello di farmi uscire dentro uno dei sacchi. Ricordo perfettamente quegli attimi. Ero effettivamente dentro un sacco, disteso su un carro, e un soldato tedesco era seduto sopra di me, ignaro della mia presenza. Per non farmi scoprire, non dovevo muovere un muscolo e dovevo trattenere il fiato per tutto il viaggio. Ricordo anche il momento in cui arrivammo a destinazione e mi gettarono fuori dal carro, insieme a tutti gli altri sacchi. Quando uscii allo scoperto, mi trovavo già nella stalla del contadino. Nel frattempo, anche mia madre riuscì a corrompere un soldato tedesco e raggiungermi lì. Mio padre rimase nel ghetto, noi invece avevamo trovato rifugio.
Vi eravate imbattuti in un Giusto tra le nazioni.
Proprio così. Questo umile contadino tirava fuori gli ebrei dal ghetto, li nascondeva a casa sua per un po’ di tempo e poi cercava di trasferirli altrove. Io e mia madre siamo stati trasferiti da un altro contadino, anche lui un Giusto, che ci ha ospitati per circa sei mesi a casa sua, ovvero fino alla fine della guerra. Naturalmente, in quanto ebrei non potevamo girare liberamente nel villaggio, e durante le ore del giorno non potevamo nemmeno girare liberamente in casa, poiché i nazisti venivano spesso a fare dei controlli. Perciò il contadino costruì per noi un muro doppio in una delle stanze con un passaggio sotto il letto. Uno spazio piccolissimo di un metro quadrato dove io e mia madre trascorrevamo la maggior parte delle ore del giorno.
Professor Barak, osservando l’uomo seduto di fronte a me, immagino che già da bambino fosse particolarmente intelligente e brillante. Come teneva occupata la mente durante quelle lunghe ore di silenzio?
Mia madre era un’insegnante di scuola e durante tutto il periodo trascorso a casa del contadino, mi insegnò la matematica, l’aritmetica, la storia e la geografia. Solo il latino mi rifiutai fermamente di imparare. Di sera, al calare del buio, uscivo da dietro il muro e giravo un po’ in casa e nella stalla. Effettivamente, quello fu un periodo molto difficile per me, poiché ero privo di stimoli.
Ricorda l’istante in cui apprese che la guerra era finita? Che poteva tornare ad essere un bambino libero? Un bambino normale?
Certamente. Ricordo i colpi dei cannoni e dei carri armati. Ricordo anche che il contadino prese me e a mia madre, ci portò giù al villaggio e disse a tutti: “Ecco, questi sono gli ebrei che ho salvato”. Anche mio padre riuscì a sopravvivere e quando ci riunimmo a lui scoprimmo che, in quanto direttore dell’ufficio sionista in Lituania, era nella lista nera dei russi e che, pertanto, dovevamo fuggire di nuovo. Ottenemmo così dei documenti greci falsi e scappammo. Passammo per Varsavia e Budapest, città fantasma completamente distrutte, e quando arrivammo nella parte britannica dell’Austria incontrammo per la prima volta i membri della Brigata ebraica.
Così diversi da tutti gli ebrei che avevate conosciuto fino a quel momento.
Esattamente. Non più vittime e prigionieri, ma soldati forti e audaci. Ricordo che indossavano le uniformi dell’esercito britannico, ma al braccio portavano una Stella di David. Quell’immagine fu una delle più emozionanti di tutta la mia vita. I soldati della brigata ci fecero salire su un veicolo militare e ci aiutarono ad attraversare il confine. Così arrivammo in Italia. Prima a Milano e poi a Roma. Abitammo per due anni in via di Villa Sacchetti, numero tre.
Proprio a Roma, così colorata e caotica, così diversa dalla vostra Kaunas.
Credimi, i ricordi più felici della mia vita sono legati agli anni trascorsi in Italia. Ho studiato poco, pochissimo, poiché trascorrevo la maggior parte del mio tempo a viaggiare ed esplorare le meraviglie del paese. Lì, per la prima volta, sono stato trattato davvero da essere umano. Ancora oggi, sento di avere un debito profondo con l’Italia e con gli italiani. In particolare, con Roma, perché mi ha restituito la mia infanzia perduta.
Nonostante ciò, due anni dopo avete deciso di lasciare questo piccolo angolo di paradiso e trasferirvi di nuovo. Perché?
Mio padre era e rimase un grande attivista sionista. Quando gli fu offerta la possibilità di andare a Cipro per aiutare un gruppo di ebrei fuggiti dai ghetti per trasferirsi in Terra d’Israele, accettò immediatamente. Così ottenemmo un visto per Cipro e partimmo con una nave che salpò da Napoli e passò per Haifa. Quando arrivammo a Haifa, tuttavia, al posto di proseguire il viaggio, scendemmo dalla nave e non vi salimmo mai più. Rimanemmo in Israele. Ricordo il nostro primo ingresso nel paese. Era mattina e i raggi del sole cadevano sulle alture di Haifa. Era uno spettacolo mozzafiato.
E ancora una volta, iniziaste da zero una nuova vita.
Sì. Ci trasferimmo presto a Tel Aviv, dove iniziai ad andare a scuola. Entrai in quinta elementare senza sapere una parola di ebraico, e venni bocciato infatti in tutte quelle materie che richiedevano una buona conoscenza della lingua ebraica. Nonostante ciò, superai con successo gli esami di matematica, storia e geografia. Ricordi? La mia mamma mi aveva preparato a quel momento mentre ci nascondevamo dai nazisti. Poi ci trasferimmo di nuovo. Durante la Guerra d’Indipendenza, vivevamo ormai a Gerusalemme da un po’ di tempo.
Professor Barak, ha sempre detto che il sionismo rappresenta per lei un valore sacro. Un termine che non è certo solito utilizzare. Per quale motivo?
Semplice: proprio come Herzl, anch’io sono fermamente convinto che il legame tra il popolo ebraico e la terra d’Israele non sia basato unicamente su una storia passata, ma che esista anche e soprattutto in funzione di una storia futura ancora da scrivere.
Per tutta la sua vita adulta, lei ha perseguito la giustizia. Ecco, oserei dire che la giustizia è forse la sua ossessione più grande. Crede che questa sua vocazione sia legata all’ingiustizia che ha vissuto da bambino?
Cerco di non collegare mai gli eventi che ho vissuto nei diversi periodi della mia vita. Preferisco non rendere romantico il presente collegandolo al mio passato. Tuttavia, credo che la mia esperienza personale di sopravvissuto abbia certamente influenzato non solo la persona che sono, ma anche il giudice che sono stato.
In che modo?
La mia filosofia giudiziaria è frutto della mia esperienza di vita e si basa pertanto su due principi. Il primo, è l’importanza dell’esistenza dello Stato di Israele come patria del popolo ebraico. Suppongo infatti che se fosse esistito uno Stato ebraico quando scoppiò la Seconda Guerra Mondiale, la Shoah non avrebbe mai avuto degli effetti così devastanti. Il secondo principio è l’importanza del rispetto dei diritti umani e, soprattutto, della dignità umana. I tedeschi ci hanno tolto la vita, ma non sono riusciti a toglierci la dignità. Anche nei momenti difficili, continuavamo ad aiutarci e a prenderci cura l’uno dell’altro. Siamo rimasti uomini capaci di compiere gesti umani. Ecco, questo è un diritto che va salvaguardato più di qualunque altro.
Lo scorso anno il premier Benjamin Netanyahu le ha chiesto di rappresentare Israele, in veste di giudice, in un processo che si è tenuto alla Corte Internazionale di Giustizia dell’Aia. L’accusa incresciosa mossa contro lo Stato ebraico era quella di aver compiuto un genocidio a Gaza. Ricordo di averla vista sul piccolo schermo e di aver pensato che era incredibilmente ingiusto, nonché paradossale, che un sopravvissuto alla Shoah dovesse vivere quel momento. Lei cos’ha provato?
Non lo nego, è stato estremamente doloroso e difficile per me prendere parte a un processo in cui lo Stato nel quale vivo e di cui faccio attivamente parte, viene accusato di genocidio. Un dolore che ho condiviso con grande sincerità anche con i miei colleghi giudici all’Aia, all’inizio del processo. D’altronde, il termine “genocidio” è stato introdotto nel linguaggio comune in seguito alla Shoah ed è sempre stato associato allo sterminio del popolo ebraico. Accusare oggi di genocidio proprio Israele, risulta ai miei occhi insopportabile e inappropriato, oltre che giuridicamente sbagliato.
Un’ultima domanda, Professor Barak. Ha mai più incontrato il contadino che le ha salvato la vita?
Ho sempre desiderato incontrarlo per ringraziarlo, ma durante il periodo del regime sovietico era semplicemente impossibile. Quando sono diventato presidente della Corte Suprema israeliana, ho fatto amicizia con il presidente della Corte costituzionale lituana e gli ho chiesto di aiutarmi a trovare e incontrare la famiglia che mi aveva nascosto e, pertanto, salvato. Lui ha accettato di aiutarmi e quando mi ha comunicato di averla finalmente trovata, sono partito con mia moglie e i miei due figli maggiori per incontrarla.
L’ultima volta che l’avevano vista, lei era un bambino impaurito di otto anni. Come si sono posti di fronte al giudice ormai adulto che è diventato?
Il padre non era più in vita, ma tutta la sua famiglia è venuta ad accoglierci. È stato davvero molto emozionante. La chiusura necessaria di un cerchio fondamentale della mia vita. Ricordavano tutto di quegli anni, molto più di quanto ricordassi io.
Non hanno chiesto nulla in cambio al loro sacrificio?
Niente di niente. Anzi, alla fine dell’incontro ho posto loro una domanda che mi aveva tormentato per troppi anni. Perché avevano rischiato le loro vite per salvare le nostre? D’altronde, se ci avessero trovati, ci avrebbero uccisi tutti. Perché hanno corso quel rischio? Perché? Ricordo che la figlia del contadino ha sorriso e mi ha risposto dicendo di non capire proprio la mia domanda. “Voi avevate bisogno di aiuto e noi potevamo aiutarvi, perché non avremmo dovuto farlo?”, ha poi aggiunto. Quel ragionamento così complesso, risultava invece essere semplice e naturale pronunciato da lei. Ricordo di essermi girato sbalordito verso mia moglie e i miei figli, e di aver chiesto loro cosa avremmo fatto noi in una situazione simile.
Ha mai trovato una risposta?
No, mai. Ancora oggi me la pongo, quella domanda, ogni giorno, con insistenza, ma non riesco a darmi una risposta sincera.
Foto in alto: courtesy Alex Kolomoisky