È morto Henry Kissinger a 100 anni. Un secolo di politica tra celebrazioni, critiche e identità ebraica

Personaggi e Storie

di Marina Gersony

 

È scomparso all’età di 100 anni Henry Kissinger, l’intellettuale trasformato in diplomatico che tracciò la strada per l’apertura degli Stati Uniti alla Cina, negoziò l’uscita dal Vietnam e impiegò astuzia, ambizione e intelligenza per rimodellare i rapporti di potere americani con l’Unione Sovietica durante il culmine della Guerra Fredda. La sua abilità politica, spesso considerata senza scrupoli e spregiudicata, non esitava a includere interventi su governi e figure politiche straniere, tutto per preservare a ogni costo la supremazia statunitense e impedire la sopravvivenza di realtà politiche ritenute ostili. La sua vita, intrisa di successi e controversie, è stata un capitolo straordinario che ha modellato gli eventi chiave del XX secolo.

 

Pochi diplomatici hanno suscitato tanta passione, tra celebrazioni e critiche, come lui, consigliere di presidenti che spaziavano da John F. Kennedy a Joe Biden. Rifugiato ebreo tedesco, ha influenzato praticamente ogni relazione globale con il suo accento bavarese che, a volte, aggiungeva un tocco indecifrabile alle sue dichiarazioni.

 

Membro del Partito Repubblicano, Kissinger ha ricoperto ruoli chiave come Consigliere per la sicurezza nazionale e Segretario di Stato degli Stati Uniti durante le presidenze di Richard Nixon e Gerald Ford tra il 1969 e il 1977. Nel 1973, è stato insignito del Premio Nobel per la Pace.

 

La sua biografia inizia a Fürth, in Baviera, con il nome di Heinz Alfred Kissinger il 27 maggio 1923. Appartenente a una tipica famiglia ebraica tedesca originaria di Bad Kissingen. Suo padre, Louis Kissinger era un insegnante, sua madre, Paula Stern una casalinga che accudiva la casa e i due figli, Heinz e Walter. Lasciarono la Germania nel 1938 in seguito alle persecuzioni antisemite dei nazisti.  Dopo un breve soggiorno a Londra, la famiglia Kissinger si trasferì a New York, a Washington Heights (Upper Manhattan), con l’aiuto di parenti.

 

Heinz, che successivamente cambiò il suo nome in Henry, si iscrisse alla High School George Washington, emergendo come uno degli studenti più intraprendenti, attivi e brillanti. Lavorò come operaio durante il giorno per finanziare i suoi studi serali d’inglese e, terminato il liceo, continuò a studiare ragioneria presso il City College, contribuendo al bilancio familiare con lavori vari, dalla fabbrica di spazzole e pennelli da barba all’ufficio postale.

 

I suoi genitori assistettero alla sua ascesa alla più alta carica della politica estera nazionale «come se fosse un sogno». Raccontò in seguito Kissinger: «Erano stati costretti ad abbandonare la loro terra natale; tredici membri della nostra famiglia erano stati vittime dei pregiudizi umani. A malapena potevano credere che trentacinque anni dopo, il loro figlio avrebbe raggiunto la più alta carica esecutiva della nostra nazione».

 

Oggi, in occasione della sua morte avvenuta a cent’anni suonati, gli articoli sulla sua vita stanno praticamente ballando la danza della memoria. Tuttavia, nella frenesia e nell’urgenza della cronaca attuale, per comprendere appieno l’uomo e il politico, è utile approfondire la sua identità ebraica e la fuga da una patria ostile, elementi che hanno intessuto il filo narrativo della sua vita.

 

In un articolo del Times of Israel di qualche anno fa – intitolato «Il rifugiato tedesco “machiavellico” Kissinger ha plasmato la politica americana con la filosofia ebraica» – si evidenzia come le strategie dell’ex Segretario di Stato, sempre influenti, siano state modellate dalla fuga della famiglia dai nazisti e dagli intellettuali ebrei tedeschi.  L’articolo cita il libro The Inevitability of Tragedy: Henry Kissinger and His World, un’opera illuminante (2020) alla luce della sua recente scomparsa. L’autore e critico Barry Gewen si propone di smontare l’etichetta machiavellica che spesso accompagna la filosofia politica di Kissinger.

 

Gewen sostiene che la visione del mondo di Kissinger, almeno quando si tratta di politica, possa essere riassunta in tre parole: equilibrio di potere. Di fatto il libro getta luce sulle politiche controverse di Kissinger durante gli eventi in Vietnam e in Cile, guidate da una nuova interpretazione del suo concetto di realismo, basato sulla convinzione che la politica globale sia intrisa di una competizione inevitabilmente tragica per il potere. Fondamentalmente, Gewen contestualizza il pensiero pessimistico di Kissinger nel contesto europeo, evidenziando come le esperienze del diplomatico, rifugiato dalla Germania nazista, abbiano profondamente plasmato le sue prospettive. Non a caso, i legami tra le nozioni di potere di Kissinger e quelle del suo mentore, Hans Morgenthau, considerato il padre del realismo, insieme ai contributi di altri due ebrei tedeschi emigrati, Leo Strauss e Hannah Arendt, che condividevano le sue preoccupazioni sulle vulnerabilità della democrazia, hanno profondamente segnato, influenzato e rafforzato la sua visione del mondo.

 

Come si può leggere sull’Oxford Academic, le esperienze personali minacciose che Kissinger affrontò durante tutta la sua vita – persecuzione, esilio, guerra e pregiudizio – emersero e rafforzarono la sua identità come ebreo. Le opportunità che consentirono a Kissinger di raggiungere il successo professionale nonostante queste minacce – immigrazione, servizio militare, accesso all’università e contributi alla strategia della Guerra Fredda – non cancellarono la sua ebraicità. In molti modi, la rinforzarono attraverso una combinazione di continua esclusione e accesso speciale ad aree in cui figure di spicco ritenevano che gli ebrei tedeschi avessero competenze speciali. Ad Harvard, per esempio, Kissinger poteva creare nuovi programmi per lo studio internazionale, ma rimaneva socialmente segregato con altri ebrei. Non ottenne mai l’accesso ai club d’élite del campus, anche come rinomato professore. Viveva il sogno americano, ma non sfuggì mai all’incubo dell’antisemitismo.

 

Nel 2006, anche dopo decenni di integrazione ebraica nella società mainstream e la formazione di un ampio consenso americano sulla partnership con Israele, Kissinger continuava a preoccuparsi dell’antisemitismo negli Stati Uniti. Questa preoccupazione fu presente per tutta la carriera di Kissinger, rinforzata dal suo stretto lavoro con una Casa Bianca e un Congresso in cui il pregiudizio contro gli ebrei era comune, nonostante la promozione di uno come Segretario di Stato.

Sempre sull’Oxford Academic si leggono le parole di Kissinger: «Finché non emigrai in America io e la mia famiglia abbiamo sopportato l’ostracismo e la discriminazione progressisti. Mio padre perse il lavoro di insegnante per il quale aveva lavorato tutta la vita; gli amici di gioventù dei miei genitori li evitavano. Sono stato costretto a frequentare una scuola segregata». «Quando ho saputo in seguito che anche l’America aveva enormi problemi – continua Kissinger – non ho mai potuto dimenticare quale ispirazione fosse stata per le vittime della persecuzione, per la mia famiglia, e a me durante anni crudeli e degradanti. Ho sempre ricordato l’emozione provata quando ho camminato per la prima volta per le strade di New York City. Vedendo un gruppo di ragazzi, ho cominciato ad attraversare dall’altra parte per evitare di essere picchiato. E poi mi sono ricordato dov’ero». Per Kissinger e molti altri immigrati del ventesimo secolo, l’America era una terra di salvezza, definita dal suo «idealismo, dalla sua umanità e dall’incarnazione delle speranze dell’umanità».