Pitigliano

Elena, l’ultima ebrea di Pitigliano si racconta

Personaggi e Storie

di Anna Lesnevskaya

Oggi della vecchia comunità ebraica di Pitigliano non rimane che Elena Servi, custode della memoria storica e delle chiavi del cimitero ebraico. Nonostante i suoi 86 anni, continua a presiedere l’associazione “La Piccola Gerusalemme” nata nel 1996, dopo che il Comune di Pitigliano ha ricostruito la Sinagoga crollata negli anni Sessanta e ha ripristinato i caratteristici locali dell’antica comunità, scavati nel tufo. “A Pitigliano si fanno un po’ vanto di essere la Piccola Gerusalemme, – ci racconta Elena, che incontriamo nella sua abitazione, situata nella parte nuova della città. – Noi siamo conosciuti un po’ in tutto il mondo”. Il patrimonio ebraico di Pitigliano gestito dall’associazione porta nel piccolo borgo al confine della Toscana più di 30 mila turisti all’anno, tra cui tanti stranieri.

Che ricordo ha della vecchia comunità ebraica pitiglianese?

Mi ricordo che tutti gli anni a Pitigliano si celebrava al Tempio la “notte degli orvietani”, il Purim locale che commemorava l’episodio del 1799, quando la popolazione del luogo salvò il ghetto dal saccheggio. Da bambina sono stata col babbo ad assistere alle celebrazioni ed ero molto orgogliosa che i pitiglianesi avevano aiutato gli ebrei. Dei locali che ora si vedono nel museo ai miei tempi c’era solo il forno, mentre le altre stanze erano abitate dalle famiglie povere di Pitigliano. Il forno è rimasto aperto fino al ’39. Mi ricordo come andavo lì con la mamma a preparare, perché facevano le azzime per tutto il periodo di Pesach. Noi le regalavamo agli amici cattolici. C’era una bella armonia.

Armonia spezzata dalle leggi razziali del ’38?

E’ stato uno choc dal quale mio padre, Livio Sevi, non si è più ripreso. Era un patriota, aveva combattuto nella Prima guerra mondiale, era stato decorato con la croce al merito di guerra. Infatti gli dettero la famosa discriminazione che poi non servì a niente. Mentre suo zio dalla parte materna, Zaccaria De Benedetti, fu volontario della campagna del 1860 e ultimo garibaldino rimasto in vita in provincia di Padova. Morì nel 1942. Mi ricordo che a casa avevamo un giornale che riportava le parole del Re. Diceva che in Italia non ci sarebbe mai stata una questione ebraica, perché il contributo di sangue dato dagli ebrei italiani durante il Risorgimento e durante la Prima guerra mondiale era stato vasto e generoso. E poi, poco dopo, il Re firmò le leggi razziali.

Come avete vissuto le persecuzioni di quel periodo?

Qui ci furono dei piccoli gerarchi fascisti che ci resero la vita amara. Proibirono di salutarci. Chiamarono il padre di una delle mie amiche, perché non la facesse giocare con me. Si immagini! Nove anni lei, otto anni io. Abitavamo nello stesso palazzo. E suo papà disse: “Non esiste. Ha sempre giocato!”. Rimase la mia amica per tutta la vita. I miei genitori come ebrei non potevano andare al bar o al cinema, così la mamma di un’altra mia amica mi prendeva con loro, mi portava ovunque. Abbiamo avuto veramente tante testimonianze d’affetto.

Avete deciso di scappare subito dopo l’8 settembre ?

Mio papà non voleva andare via da Pitigliano, era fiducioso. Si è resa conto invece mia madre che bisognava fuggire. Era terrorizzata dai tedeschi. Dopo la deportazione degli ebrei romani, anche gli amici cattolici dicevano a mio padre: “Ma che state a fare qui? Andate via, andate via!”. Infatti noi siamo scappati l’11 novembre e la razzia del Ghetto di Roma fu il 16 ottobre. Il papà aveva un negozio di tessuti con una vastissima clientela di contadini, anche per quello ci accolsero in molti. Quando dovevamo uscire da un posto all’altro, i nostri amici si preoccupavano sempre di trovarci un’altra possibilità di alloggio. C’era un clima di solidarietà. Raminghi per le campagne, abbiamo sempre trovato chi ci ha aiutato. Però quello che fece per noi più di tutti e fu poi nominato “Giusto tra le Nazioni” dallo Yad Vashem, fu il fattore della tenuta di Mezzano, Fortunato Sonno, che non ci conosceva affatto. E’ stato lui a nasconderci in una grotta e a portarci il cibo per gli ultimi tre mesi prima della liberazione avvenuta da noi nel giugno del ’44.

Non tutti però sono scampati alla Shoah, come ricorda la lapide della Sinagoga?

Si trovava a Pitigliano, sfollata, la famiglia Cava di Livorno. Lei era originaria di Pitigliano e si chiamava Moscati. Nell’autunno del ’43 in una villa che apparteneva al vescovo di Grosseto, nella località Roccatederighi, fu aperto un campo di concentramento per gli ebrei della zona. Quando arrivò l’ordine che gli ebrei si dovevano presentare, i Cava ci andarono. Nel ‘43 vissero relativamente bene, sotto la protezione del vescovo. Nella primavera del ‘44 cominciarono a deportare tutti gli ebrei stranieri e gli ebrei italiani in ordine alfabetico. Loro si chiamavano Cava, e quindi morirono tutti e quattro. Dalla famiglia di mio marito otto persone sono state deportate ad Auschwitz, però da Firenze. Noi ne ricordiamo quattro, perché sono nati qui.

Dopo il ritorno niente fu come prima?

Quando tornammo, la nostra casa non c’era più. I tedeschi la buttarono giù perché su quella strada dovevano passare le loro autoblindo. Mio papà riprese il negozio con tanta difficoltà, perché siamo stati sette mesi fuori di casa e poi è morto presto, nel ’50. Quello che successe fu un vero colpo per lui, che fu molto amico di tutti. Con le leggi razziali persero il posto di lavoro l’ingegnere comunale che ha progettato il municipio che c’è ora, e il direttore del Monte dei Paschi. Quindi andarono via. Chi andò via in quel periodo, cinque-sei famiglie le più numerose, con più giovani, non tornarono più. E quindi qui rimanemmo pochissimi. Anche il Rabbino andò via nel ’40 e finì tutto. Dopo la guerra non c’era più il minyan e riaprivamo solo il giorno del Kippur, perché venivano da fuori. L’ultima celebrazione è stata il 12 ottobre del ’59, dopo di che c’era qualche sentore che il tetto della Sinagoga fosse un po’ pericolante. Quando il soffitto è venuto giù all’improvviso, il Comune dovette demolire. Per una ventina d’anni è andato tutto in malora.

E poi c’è stata la rinascita?

Il Comune, un po’ perché Pitigliano ha come caratteristica il panorama, un po’ perché hanno intuito gli effetti del turismo, ha ricostruito la Sinagoga. E poi è nata la nostra associazione. E’ mio figlio, Enrico Spizzichino, che ebbe questa idea luminosa. Diceva: “Sono l’ultimo ebreo nato a Pitigliano. Devo fare qualcosa”. E visto che Pitigliano era chiamata ai tempi d’oro “la Piccola Gerusalemme”, mio figlio decise di dare questo nome anche alla nostra associazione. Al momento siamo circa 120 soci e ci reggiamo con le nostre forze e diamo anche lavoro a diverse persone. Uno degli scopi principali dell’associazione, oltre alla promozione della cultura ebraica a Pitigliano, è quello di preservare il cimitero in collaborazione col Comune. Quando c’era una comunità, era un vero e proprio giardino. Ci costa vari migliaia di euro l’anno di manutenzione. Ora cade un pezzetto di muro, noi rattoppiamo qua e là. Servirebbe un finanziamento a carattere continuativo, che finora non siamo riusciti ad ottenere.

 

Sinagoga di Pitigliano

Un borgo incantato: è la “Piccola Gerusalemme”

La strada 74 maremmana si snoda tra uliveti e campi di grano, quando dopo l’ennesima curva il viaggiatore viene colpito da un’apparizione d’altri tempi. Su una rupe vulcanica color sabbia si staglia, in mezzo al verde, Pitigliano, la città del tufo. E’ un borgo medievale fiero delle sue origini contadine. Nella piazza centrale al posto del consueto monumento ad un re o ad un comandante, ce n’è uno dedicato al semplice villano. Il centro storico è percorso da tre assi principali – Via Roma (“Il Corso”), Via Zuccarelli (“Il Ghetto”) e Via Vignoli (“La Fratta”) – e da innumerevoli vicoli. Nel loro labirinto, le anziane si salutano la sera per darsi appuntamento la mattina successiva, come se il tempo si fosse fermato.

E’ in questo borgo incantato che nel Cinquecento tanti ebrei trovarono rifugio e la tolleranza della famiglia Orsini, mentre lo Stato Pontificio e il Granducato di Toscana decidevano di rinchiudere tutti gli israeliti nei ghetti. Nel 1556, il medico David de Pomis ebbe in concessione da Niccolò IV Orsini un pezzo di terra ai piedi di Pitigliano per il cimitero ebraico e nel 1598 il tessitore Leone di Sabato fece costruire la Sinagoga in bilico sulla rupe. Nel corso dei secoli la comunità ebraica è cresciuta, fino a raggiungere, a ridosso dell’Unità d’Italia, circa 500 membri, pari ad un terzo della popolazione pitiglianese dell’epoca, meritandosi l’appellativo di “Piccola Gerusalemme”.

All’inizio del Seicento, quando Pitigliano passò sotto i Medici, gli ebrei furono costretti a convergere in un unico quartiere. Sono stati i ricordi di quel periodo non certo gioioso, cosparsi da una buona dose di umorismo, a dare origine al nome del goloso dolce pitiglianese di tradizione ebraica, lo sfratto. Il lungo biscotto farcito con un ripieno di noci tritate, miele, scorza di arancia e noce moscata ha infatti la forma di un bastone, utilizzato da un messo che batteva alle porte delle abitazioni per intimare lo sfratto. Si può acquistare uno sfratto appena sfornato nel Forno del Ghetto di Francesca. Volendo, lo si può accompagnare con un vino kasher locale prodotto dalla Cantina Cooperativa di Pitigliano.

La Sinagoga, che a suo tempo attirò l’attenzione del granduca Pietro Leopoldo di Lorena di passaggio a Pitigliano nel 1773, crollò negli anni Sessanta, a causa dei dissesti causati dai bombardamenti della Seconda guerra mondiale. Quello che vediamo oggi è il risultato di un intervento di ricostruzione da parte del Comune, effettuato tra il 1995 e il 2003, insieme al ripristino dei locali scavati nel tufo dell’antico Ghetto, ora visitabili insieme al museo ebraico. Sono una testimonianza di quel mondo vivace e autosufficiente che fu la comunità di Pitigliano. Disponeva infatti di un Miqvè, il bagno rituale, una cantina, un macello kasher, una tintoria e un forno delle azzime. Scendendo invece ai piedi della città, si può visitare l’antico cimitero ebraico. Tra le tombe delle famiglie Servi, Spizzichino e Sadun – cognomi ebraici molto diffusi a Pitigliano – spicca un monumento di straordinaria bellezza, fuori da ogni tradizione, quello di una bambina sdraiata, con lo sguardo rivolto verso la città.

Il nome della “Piccola Gerusalemme” è passato alla storia anche come esempio di un modello di convivenza armoniosa tra ebrei e cattolici testimoniato soprattutto da un memorabile episodio. Nel 1799 a Pitigliano, come in tante altre località del Granducato di Toscana, si instaurò un governo filofrancese, venne innalzato l’albero della liberta e scardinato il cancello del ghetto. Gli ebrei, come simpatizzanti dei giacobini, furono presi di mira dai sanfedisti. Il 6 luglio arrivarono a Pitigliano dei dragoni orvietani che minacciarono il rabbino e profanarono il Tempio. La popolazione locale rimase talmente indignata di fronte a questa situazione, che cacciò gli orvietani. Per commemorare questo avvenimento il rabbino di Pitigliano assieme al figlio compose gli inni che in seguito vennero recitati durante l’annuale celebrazione nota come il Purim di Pitigliano o “la notte degli orvietani”.

Anche nella Shoah italiana Pitigliano è in certo senso un caso a parte. Le circa 30 famiglie ebraiche che rimasero nel borgo dopo l’8 settembre del ’43, furono salvate dai cattolici che li aiutarono a nascondersi nelle campagne circostanti. La lapide sulla facciata della Sinagoga di Pitigliano ricorda però alcuni ebrei originari di Pitigliano che furono deportati da altre città.

 

Informazioni utili:

Sinagoga, il Ghetto, museo e cimitero ebraico di Pitigliano

Associazione “La Piccola Gerusalemme”:

Vicolo Marghera trav. Via Zuccarelli

Tel./fax: 0564614230,  cell. 3281907173

Mail: lapiccolagerusalemme@libero.it

 

Vini kasher di Pitigliano

Acquistabili nel negozio della “Piccola Gerusalemme”

Ingresso dal cortile del museo ebraico

 

Forno del Ghetto di Francesca

Lo sfratto e dolci tipici di tradizione ebraica

Via Zuccarelli, vicino alla Sinagoga, tel. 0564615303