Fontana: un giornale più internazionale, che non sia mai fazioso

Personaggi e Storie

di Fiona Diwan

Più spazio agli affari esteri. E poi il terrorismo, la rinascita del pregiudizio antisemita, l’immigrazione, la linea da tenere quando si scrive di Israele, Medioriente, mondo ebraico. Parla Luciano Fontana, neo direttore del Corriere della Sera

Luciano Fontana
Luciano Fontana

Un sorriso da ragazzo, quasi vent’anni vissuti al Corriere della Sera, una carriera tutta interna, una grande conoscenza del Dna del giornale. In via Solferino, non è una novità che i direttori siano spesso stati scelti dall’interno del corpo redazionale.  Nominato direttore il primo maggio 2015, nato a Frosinone, vissuto a Roma ma milanese di adozione, Luciano Fontana, 57 anni (già condirettore con Ferruccio De Bortoli dal 2009 e al Corriere dal 1997), ci racconta a pochi mesi dal suo insediamento, come la pensa su Israele, sul Medioriente, sull’allarme terrorismo che sta travolgendo l’Europa. Una laurea in Filosofia e tesi in linguistica con Tullio De Mauro, si avverte, parlandogli, l’importanza che Fontana attribuisce al peso delle parole. «L’attenzione al linguaggio, per un giornalista, deve essere un esercizio costante. Le parole possono a volte assumere derive semantiche insospettabili, ammalarsi, come le persone e perciò vanno curate, come ad esempio nel caso della parola “sionismo” che andrebbe restituita alle sue radici e al suo valore, spogliata dall’accezione negativa che ha assunto negli anni».
Fontana, quali cambiamenti dobbiamo aspettarci dopo gli attentati di Parigi?
Con la strage del 13 novembre si è consumato un passaggio importante, con un effetto dirompente sulla psicologia collettiva. Se prima si pensava che la furia terroristica riguardasse gruppi minoritari (gli ebrei, un manipolo di irrispettosi sbeffeggiatori del Profeta, registi, disegnatori, giornalisti satirici…), oggi siamo davanti a una sorta di universalità, il bersaglio si è fatto più ampio. Non so come l’Europa riuscirà a mettere in atto una reazione efficace. La consapevolezza è che bisogna cambiare passo rispetto al passato. L’insicurezza, la paura, si sono insinuate nella nostra vita di europei come mai prima d’ora, fatta eccezione per i mesi dopo l’11 settembre 2001. Il Corriere è stato tra i primi a parlare di guerra. Perciò urge un cambiamento di attitudine, adottare atteggiamenti meno accondiscendenti e più rigidi rispetto all’Islam di casa nostra, per debellare qualsiasi tentazione di eventuali fiancheggiatori. Non a caso sono partite le prime espulsioni dall’Italia ed erano anni che questo non avveniva. Non ci sono ricette facili, se non prevenzione e controllo, e misure rigide per chi si proclama pubblicamente portatore di un’ideologia violenta. Urge una forte richiesta di esplicitazione, una chiarezza civile da parte dell’islam moderato, per bandire dalle proprie fila le infiltrazioni estremiste e le predicazioni violente che avvengono in alcuni luoghi di culto. E poi chiedere che si instauri una collaborazione con la polizia italiana. Insomma, pretendere dal mondo musulmano italiano un’adesione a valori condivisi, uno sforzo verso un’integrazione vera, fatta di rispetto dei doveri e capace di esprimere a pieno titolo la volontà di essere cittadini del Paese che lo ospita.
E infine, chiedere ai musulmani moderati che vogliono vivere e lavorare pacificamente da noi, di fare i conti con se stessi e con le varie interpretazioni della propria fede religiosa. Da un sondaggio recente, emerge che l’Islam non è in grado di percepire se stesso come minoranza religiosa: è come se fosse percorso da una vena assolutista che lo spinge a non riconoscere l’altro da sé. In questo quadro, occorre affiancare ad un’azione di polizia anche un’azione culturale che scardini l’atteggiamento di paura e di omertà, e che spinga a rompere le regole della propria affiliazione. Insomma, ci vuole una forte combinazione di security e nel contempo di rispetto per quelle leggi e quelle libertà che sono una conquista dello stile di vita occidentale. Complessivamente, in Italia, la situazione è migliore che altrove, il verbo multiculturalista è meno diffuso. La Francia è diventata invece, con i suoi 6-7 milioni di arabi musulmani, il campo elettivo di questa battaglia.
In Israele è stata appena votata, dalla Knesset, la messa al bando dell’Islam radicale…
Da noi non funzionerebbe. E come si fa? Il fenomeno è troppo sfuggente e magmatico, senza contare che oggi l’Islam stesso è in guerra con se stesso e con le sue varie anime (sunniti, sciiti, salafiti, alawiti, wahabiti…). Certo le frange estremiste vanno perseguite, tolleranza zero verso chi vorrebbe imporre la sharia o la legge islamica qui da noi.
Perché in Italia i giornalisti sono spesso così faziosi quando si affrontano i temi che toccano Israele e la questione palestinese?
Storicamente, la faziosità è in Italia figlia dell’ideologia terzomondista che ha assunto su di sé, per anni,  le istanze del mondo arabo, un’ideologia che ha dominato il pensiero e la visione della sinistra europea, senza contare un certo fascino che la causa palestinese ha esercitato sul mondo giornalistico e politico, penso a personaggi come Craxi, Andreotti, D’Alema… Tuttavia, credo che nei giornali italiani l’atteggiamento sia oggi di gran lunga migliore e più equidistante, rispetto al resto della stampa europea. Per noi del Corriere cercare di non essere mai faziosi nell’uso delle parole o nella restituzione dei fatti è un esercizio costante fatto di rigore e onestà intellettuale.
Secondo lei, i nostri quotidiani dedicano sufficiente spazio al Medioriente?
Al primo posto del mio programma d’insediamento ho inserito una maggiore attenzione agli esteri, una proiezione internazionale più marcata e significativa, a fronte di una drastica riduzione delle pagine dedicate alla politica interna. Ne sono una riprova le interviste-scoop pubblicate di recente, quelle al premier iraniano Rohani, a Vladimir Putin…, interviste che sono frutto di una lunga ricerca, fatta di pazienza e tenacia. Non a caso tutti i giornali internazionali ci hanno ripreso. E ultimamente, in tutti i quotidiani, lo spazio dedicato al Medioriente è quasi raddoppiato, non fosse altro che per il fatto che ciò che accade laggiù ci riguarda da vicino: i profughi siriani, i flussi migratori, il terrorismo… Sarebbe un grave “errore di grammatica” ignorarlo. Non a caso, anche il numero di editoriali che abbiamo dedicato alla politica estera è molto cresciuto negli ultimi mesi. E poi ci sono la crisi russa, il rallentamento dell’economia cinese, la crisi brasiliana, gli effetti dell’immigrazione…, tutti eventi che hanno ripercussioni immediate sulle nostre vite e che bisogna saper intercettare per poter decodificare ciò che accadrà domani a casa nostra.
Qual è la linea del Corriere quando si parla di Israele?
Innanzitutto, no agli attacchi ai civili, no al terrorismo dei coltelli. Qui al Corriere restiamo fermi e rigidi nel riconoscere il pieno e legittimo diritto di Israele a esistere come Stato sovrano. La cosiddetta intifada dei coltelli è esecrabile e nulla ha a che vedere con le rivendicazioni palestinesi a un’autodeterminazione nazionale, rivendicazioni legittime ma non se portate avanti in queste forme.
È mai stato in Israele?
Sì, una volta ma per lungo tempo. È un Paese che sento molto vicino ai nostri valori, alle nostre libertà, con i suoi scrittori che sono parte della mia formazione. Vicino, non solo per affinità culturale e scientifica, per la ricchezza dei suoi traguardi tecnologici, letterari, in campo medico, ma anche perché penso sia una realtà storica unica nel suo genere. Ciò detto, credo che ciascuno di noi abbia il diritto di criticare la politica del proprio e dell’altrui governo, ivi compreso quello israeliano, ovviamente.
Vecchio antisemitismo uguale a nuovo antisionismo?
È innegabile la sottovalutazione che c’è stata degli episodi antisemiti in Francia e Belgio. L’antisemitismo diffuso è oggi la spia di qualcosa di molto più grave. Gli attentati degli anni passati, Tolosa, Bruxelles, l’Hypercasher…, dovevano metterci sull’avviso e dirci che ciò che stava accadendo agli ebrei era un campanello di allarme di quanto sarebbe successo a tutti quanti, poco dopo. Quella contro l’antisemitismo è una battaglia istituzionale e culturale. Sappiamo che le vene antisemitiche percorrono tutti gli schieramenti politici, sono un veleno trasversale che fa ammalare il corpo sociale. Dobbiamo essere vigili: un’Europa senza ebrei è inconcepibile.
Perché il Corriere non ha una sezione fissa di Judaica o temi ebraici?
Non sono un amante delle rubriche, credo siano un modo per ghettizzare gli argomenti. Preferisco la trasversalità e credo che i temi ebraici siano oggi largamente presenti sulle nostre pagine anche se in ordine sparso e senza un “cappello” prestabilito.