di Anna Balestrieri
Sono trascorsi ottant’anni dall’eccidio delle Fosse Ardeatine, quel 24 marzo che segnò la storia patria. Si moltiplicano le iniziative per tener viva la memoria della “più grande strage metropolitana in Europa”: dalla prèmiere della sinfonia no. 9 di (William) Schumann intitolata alla tragedia alla direzione del maestro Riccardo Muti , alla pubblicazione delle memorie delle famiglie dei sopravvissuti (su Repubblica l’epopea della famiglia ebraica Fano).
La storia
La feroce rappresaglia nazista si consumò in risposta all’attentato del 23 marzo 1944, quando, in occasione del 25° anniversario della fondazione del Partito Fascista di Mussolini, 17 partigiani dei Gruppi d’Azione Patriottica (GAP), guidati da Rosario Bentivegna, fecero esplodere un ordigno in Via Rasella, a Roma, durante il passaggio di una colonna di militari tedeschi. I responsabili, affiliati al movimento clandestino comunista italiano, riuscirono a sfuggire alla cattura disperdendosi tra la folla presente sul luogo dell’attentato. L’unità militare presa di mira era principalmente composta da soldati di lingua tedesca provenienti dal Sud Tirolo, una regione che in passato era stata austriaca e poi annessa all’Italia, per poi essere controllata dalla Germania durante l’occupazione nazista dell’Italia nel 1943.
Nell’attentato, 28 soldati tedeschi morirono immediatamente e altri 5 persero la vita nei giorni successivi. Il bilancio finale fu di 42 militari uccisi e alcuni civili feriti presenti sul luogo dell’attacco. Quello che il presidente del Senato Ignazio La Russa ha definito l’anno scorso un atto “tutt’altro che nobile”, diretto a colpire “semipensionati, non SS naziste” , si annovera invece tra le pietre miliari della Resistenza italiana.
La rappresaglia nazista
In risposta all’attentato, la sera del 23 marzo, il Comandante della Polizia e dei Servizi di Sicurezza tedeschi a Roma, il tenente colonnello delle SS Herbert Kappler, insieme al comandante delle Forze Armate della Wehrmacht di stanza nella capitale, il Generale Kurt Mälzer, proposero un’azione di rappresaglia che prevedeva l’esecuzione di dieci italiani per ogni poliziotto tedesco ucciso nell’attacco . Furono suggerite anche le vittime da selezionare tra i condannati a morte detenuti nelle prigioni gestite dai Servizi di Sicurezza e dai Servizi Segreti. Il Colonnello Generale Eberhard von Mackensen, comandante della Quattordicesima Armata, approvò la proposta. Il giorno seguente, il 24 marzo 1944, militari della Polizia di Sicurezza e della SD radunarono 335 civili italiani, tutti uomini, presso le Fosse Ardeatine, una serie di grotte artificiali alla periferia di Roma. Questi uomini furono scelti per rappresaglia, anche se alcuni di loro non erano stati precedentemente condannati a morte. Dopo essere stati condotti all’interno delle grotte, furono uccisi, uno per uno con un colpo alla nuca per risparmiare munizioni, dalle SS tedesche.
La componente ebraica
Come è noto, i nazisti sbagliarono i calcoli: le vittime furono 335 e non 330 e comprendevano persone provenienti da diverse sfere della società. Tra di esse, 75 erano membri della comunità ebraica romana, sopravvissuti al rastrellamento del ghetto del 16 ottobre dell’anno precedente. Molti furono catturati a causa di delazioni, come Bucefalo, al secolo Lazzaro Anticoli, pugile ebreo consegnato alle SS dalla collaborazionista Celeste Di Porto. Tra le vittime straniere si contavano nove persone, tra cui Giorgio Leone Blumstein e Salomone Drucker, entrambi nati a Leopoli, e altri ebrei provenienti da diverse parti d’Europa.
I restanti Martiri delle Fosse Ardeatine facevano parte delle formazioni clandestine della Resistenza militare, del Partito d’Azione, di Giustizia e Libertà, e dell’organizzazione comunista Bandiera Rossa. Inoltre, vi erano fratelli massoni e altri individui detenuti per motivi politici o di pubblica sicurezza.
Il processo ai responsabili
Dopo la fine della guerra, alcuni dei responsabili dell’Eccidio delle Fosse Ardeatine furono processati dalle autorità alleate. Von Mackensen e Mälzer furono condannati a morte: la pena fu poi ridotta e entrambi furono rilasciati. Kesselring fu condannato a morte ma graziato nel 1952. Herbert Kappler fu condannato all’ergastolo e, pur riuscendo a fuggire dalla prigione, morì in Germania l’anno successivo. Erich Priebke, tra gli ufficiali responsabili dell’esecuzione, fuggì in Argentina ma fu successivamente estradato in Italia, dove fu processato e condannato all’ergastolo. Morì mentre scontava la pena agli arresti domiciliari nell’ottobre 2013.