di David Zebuloni
Abbiamo incontrato il judoka olimpionico israeliano Ori Sasson che si confessa: «Sono le fragilità a renderci uomini. E lavoro per conquistare l’oro olimpico a Tokyo 2021»
Quando il judoka Ori Sasson vinse alle Olimpiadi di Rio la medaglia di bronzo, i media israeliani lo nominarono immediatamente il “gigante sensibile”, per la sua inconsueta capacità di piangere, emozionarsi e commuoversi prima e dopo ogni incontro. Ori non ha mai smentito la sua emotività, al contrario, spesso ha preferito enfatizzarla piuttosto che demonizzarla. Abbracciarla piuttosto che denigrarla. Già noto in Israele dunque per queste sue peculiarità, Sasson ha acquisito notorietà mondiale dopo l’iconico episodio con il judoka egiziano Islam El Shehaby, che dopo essere stato sconfitto agli ottavi di finale di Rio, si era rifiutato di stringergli la mano. I media internazionali avevano ripreso e trasmesso la scena, dandole poi interpretazioni di origine storica e politica. “Il mondo arabo che rifiuta la stretta di mano di Israele”, avevano scritto. Così, oltre ad aver conquistato una medaglia olimpica, Ori è diventato anche un simbolo di pace e civiltà in un Medioriente sempre più astioso.
Lo incontro a Tel Aviv il giorno prima del suo trentesimo compleanno con l’intento di scoprire se il titolo di “gigante sensibile” si addica effettivamente alla sua persona, dall’aspetto così ingombrante e minaccioso, ma dall’indole apparentemente fragile. Vedendolo arrivare in lontananza posso immediatamente constatare che si tratti effettivamente di un gigante: 120 kg per 1,93 metri di altezza che non passano proprio inosservati. Il suo animo sensibile invece rimane ancora da esplorare.
Cominciamo parlando un po’ di delusioni, Ori, come hai vissuto il rinvio delle Olimpiadi di Tokyo?
L’Olimpiade è la massima aspirazione di ogni sportivo. Pensa che trascorri quattro anni di preparativi estenuanti per una sola gara che può cambiarti la carriera e la vita. Non ti mentirò, è stato davvero difficile accettarlo, ma ragionandoci poi su con un po’ più di lucidità ho capito che era la cosa migliore per tutti. Non potevamo correre il rischio di diffondere ulteriormente il virus.
Ma oggi sei all’apice e domani potresti non esserlo più. Non temi di perdere l’attimo?
No, perché oggi non mi sento all’apice. Credo di poter migliorare ancora. Se fossi stato al primo posto della classifica mondiale, probabilmente avrei temuto il rinvio, ma essendo oggi all’ottavo posto della classifica, so di poter ancora migliorare.
Temi i fallimenti?
Ho vissuto così tanti fallimenti lungo la mia carriera, che nulla ormai può più spezzarmi.
Hai vissuto però altrettanti successi. Cosa ricordi con precisione del momento esatto in cui hai vinto la medaglia di bronzo a Rio?
Una felicità mai provata prima. Un sentimento del tutto nuovo. Un’euforia durata mesi. Mi sembrava di vivere in un sogno. Lo stesso sogno che avevo coltivato per più di vent’anni e che in un attimo si stava realizzando proprio davanti ai miei occhi. Quasi non ci credevo, chiedevo a tutti conferma per essere sicuro che avessi davvero vinto. Per essere certo che non mi stessi sbagliando.
Nonostante fossi il favorito, non riuscivi comunque a crederci?
Prima di partire per Rio ho sognato quattro volte di vincere la medaglia. Era mia, ne ero certo. Poi la mattina mi svegliavo dal sogno e provavo un senso di delusione indescrivibile. Quando ho vinto la medaglia per davvero, dovevo essere sicuro che non stessi sognando per la quinta volta.
Quando tu e Yael Gerbi avete vinto la medaglia di bronzo, un giornalista entusiasta aveva commentato dicendo che per gli israeliani il bronzo vale quanto l’oro. Credi che sia davvero questa la condanna degli sportivi israeliani? Vincere la medaglia di bronzo e gioire come se fosse d’oro?
È una domanda molto interessante, alla quale penso spesso anch’io. A volte mi domando come avrei vissuto la vittoria se fossi stato francese o americano. Non c’è dubbio sul fatto che qui in Israele si venga facilmente incoronati per ogni traguardo raggiunto, piccolo o grande che esso sia, però non credo che ciò ci impedisca di dare il nostro meglio una volta scesi in arena. Non ci sediamo mai sugli allori noi. Quando gareggiamo, lo facciamo per vincere. Sempre.
E quando hai teso la mano al judoka egiziano, eri forse consapevole dell’enorme valore simbolico del gesto che stavi compiendo?
La politica non mi è mai interessata, io mi occupo solo di Judo. Tuttavia, dentro di me sapevo che quella stretta di mano non era solo una prassi sportiva, ero consapevole del suo significato storico e politico. Non mi aspettavo però che suscitasse tanto scalpore in tutto mondo. Se n’è parlato tanto, troppo.
Perché quella non è una stretta di mano tra Ori Sasson e Islam El Shehaby. Quella è una stretta di mano tra due mondi, due culture, due paesi storicamente nemici (nonostante la pace siglata tra Egitto e Israele nel 1979).
Prima del combattimento avevo percepito che il mio avversario voleva battermi non solo in nome della gara, ma anche perché ero israeliano, però non ho permesso a questa consapevolezza di influenzarmi. La mia non era assolutamente una questione politica, ero semplicemente agli ottavi di finale e volevo vincere. Tutto qui. Non vorrei sembrare egoista, ma quando sono in arena io non penso a nulla che non sia la vittoria. Tutto ciò che mi distoglie da essa, per me non esiste. Annullo completamente ogni rumore di sottofondo.
Lo sai che i media ti chiamano il “gigante sensibile”, vero?
Certo, lo so.
Come vivi la dissonanza tra l’identità combattiva e quella più fragile?
In conflitto perenne. E credo che alle persone piacciano i conflitti. Credo le persone siano affascinate da tutto ciò che non è definito. Negli anni sto imparando a far coesistere questi due lati del mio carattere, in modo tale che io possa essere contemporaneamente sia duro sia sensibile, senza dover per forza rinunciare a una parte di me.
Quali ostacoli incontra un gigante sensibile lungo il suo cammino?
All’inizio della mia carriera sportiva non ero affatto equilibrato, non sapevo proprio gestire i miei sentimenti. Ci sono voluti anni prima che io imparassi a tradurre la mia emotività in atteggiamenti positivi e non negativi. Un tempo, la paura di perdere poteva paralizzarmi, oggi invece so accettare la paura con serenità.
Cerchi di offrire ai giovani un nuovo modello maschile?
Beh, non penso di essere l’unico uomo a promuovere la sensibilità. Non credi? In molti ancora non legittimano le emozioni se coniugate al maschile. Io vedo nelle mie fragilità un punto di forza, non un punto di debolezza.
E le persone intorno a te accettano la tua vulnerabilità o si aspettano che tu sia sempre un combattente in arena?
Ho imparato a non vivere la vita in base a ciò che pensano gli altri, ma viverla pensando unicamente a ciò che mi rende felice, ciò che mi fa star bene. Quando ero più giovane ho dato troppo spazio alle opinioni di chi mi stava intorno e ora sto cercando di riprendere in mano ciò che più mi appartiene: me stesso e la mia vita.
Qual è la cosa di cui hai più paura?
Ho paura di abituarmi alla mia vita. Tutto ciò che mi sta capitando in questi anni è un sogno, è tutto ciò che ho desiderato da bambino. Ecco, ho paura di svegliarmi una mattina e dare tutto ciò per scontato.
La cosa che più ti emoziona invece?
La consapevolezza di aver vinto le mie battaglie personali ed essere arrivato dove sono arrivato, contro tutte le probabilità.
C’è chi dice che lo sport sia un lavoro a breve termine. Pensi già a cosa farai una volta terminata la carriera da judoka?
Mi prenderò una bella vacanza, sparirò per un po’.
E poi?
Sto completando adesso il percorso di laurea in psicologia e vorrei aiutare gli sportivi del futuro a ottimizzare le loro potenzialità. Non solo quelle fisiche, ma anche quelle mentali.
Che sogno devi ancora realizzare Ori?
Sono troppo preso dagli allenamenti per pensare ai sogni. La vita di uno sportivo è una vita assoluta, non lascia spazio per nient’altro. O ci sei o non ci sei. E io ci sono dentro fino al collo.
Credi di poter vincere la medaglia d’oro alle olimpiadi di Tokyo l’anno prossimo?
Credo di sì, questa volta ce la farò.