di Pietro Baragiola e Ludovica Iacovacci
Martedì 17 settembre la Scuola Comunità Ebraica di Milano ha ospitato Ritorno alla vita di un eroe da oltre il mare, la conferenza del riservista Maayan Mulla, rimasto ferito a Gaza durante un’imboscata dei terroristi di Hamas.
Comandante del battaglione di ingegneria dell’esercito israeliano con 14 anni di esperienza nell’IDF, il 39enne Mulla è stato tra i primi soldati israeliani a varcare la Striscia di Gaza il 27 ottobre.
“Sono rimasto scioccato nel vedere che ogni casa ha al suo interno decine di armi e bombe” ha affermato Maayan, raccontando la sua esperienza diretta al pubblico riunito nella Sala Segre.
Lo scorso dicembre, durante l’assalto all’ospedale Kamal Adwan, il comandante e il suo team sono caduti in una trappola tesa dai terroristi di Hamas. Due soldati sono morti sul colpo e cinque sono rimasti gravemente feriti.
“Io sono stato portato d’urgenza in ospedale con l’elicottero. Il mio corpo era pieno di schegge e sono rimasto sotto osservazione per diversi mesi” ha spiegato Maayan che, una volta dimesso, ha deciso di raccontare la sua vicenda in tutto il mondo. “La mia vita quel giorno è cambiata per sempre ma non mi guardo indietro per autocommiserarmi, bensì per ricordarmi che sono vivo e che posso ancora dare il mio contributo”
La carriera di Maayan Mulla
Dopo il liceo, tutti i ragazzi israeliani sono tenuti alla leva obbligatoria ma il giovane Maayan, nonostante fosse felice di prendere servizio nell’esercito, è stato subito respinto perché era considerato ‘un cattivo ragazzo e un pessimo studente’.
“Ciononostante ho continuato a lottare per questa opportunità e, dopo diversi tentativi, hanno lasciato che mi arruolassi” ha spiegato Mulla, orgoglioso della sua tenacia.
Le parole di sua madre sul ‘non abbandonare mai un obiettivo’ hanno guidato il soldato per tutta la sua carriera, spingendolo sempre verso nuovi e straordinari traguardi: Maayan è diventato presto ufficiale dell’IDF, poi comandante di battaglione, poi è tornato all’università conseguendo a pieni voti la laurea in legge e ha persino completato per ben 5 volte la nota competizione agonistica Iron Man.
Nel 2017 Mulla si è trasferito a Nuova Delhi, in India, dove è diventato CEO della Watergen, l’azienda che si impegna nel combattere la carenza di acqua pulita nel mondo attraverso un processo che la ricava dall’atmosfera.
“Per molti il 6 ottobre è stato un venerdì come un altro, ma per me è stata una delle giornate migliori della mia carriera: avevo appena finito di programmare i miei futuri viaggi di lavoro a Dubai, Londra e in Grecia e avevamo raddoppiato il nostro KPI rispetto alle previsioni di quell’anno fiscale” ha raccontato Maayan.
La mattina del 7 ottobre però, dopo aver appreso al telegiornale la notizia del brutale attacco di Hamas, la vita di Mulla è cambiata per sempre.
“Ho chiamato mia moglie, Rachel, e l’ho informata che sarei subito partito” ha proseguito Maayan. “Israele era la nostra casa e sapevamo entrambi che mi ero impegnato a difenderla anche per garantire la sicurezza dei nostri figli Barry, Noah e Nativ.”
Appena arrivato in Israele, Mulla ha fatto visita a suo fratello, rimasto ferito durante gli scontri con i miliziani di Hamas. Qui ha incontrato anche i suoi genitori che, sorpresi nel vederlo di nuovo a casa, hanno cercato in tutti i modi di fermarlo dal tornare nell’esercito, ma senza successo.
Dieci giorni dopo, quando Israele ha lanciato ufficialmente la sua operazione di terra, Maayan è stato tra i primi soldati ad entrare nella Striscia di Gaza: “avevo un team di quasi 700 persone quando sono entrato a Gaza il 27 ottobre, e lì sono rimasto fino al fatidico 12 dicembre”.
L’imboscata
Il 12 dicembre 2023, il sesto giorno di Hanukkah, Maayan e i suoi soldati sono stati mandati ad eseguire un’operazione nel campo profughi di Jabalia, nel nord di Gaza.
Il loro compito era far saltare gli edifici dei terroristi di Hamas nascosti nell’area ma, all’insaputa dell’IDF, il territorio in cui sono entrati era un’imboscata.
Alle 2.30 del pomeriggio un RPG ha colpito la squadra di Maayan, uccidendo due soldati e ferendone altri 5.
“Mi ricordo ancora che, quando l’esplosione mi ha sbalzato indietro, mi sembrava come se un camion mi avesse schiacciato contro un muro” ha spiegato Maayan. “Ho controllato subito se tutti gli arti c’erano ancora e, non vedendo parti mancanti, ho pensato di stare bene. Non sospettavo minimamente di essere gravemente ferito.”
Durante la presentazione di martedì, l’ex comandante ha mostrato un video di 3 minuti e mezzo registrato dall’elmetto del suo commilitone David, in cui si vede il momento dell’esplosione e come Maayan abbia prestato assistenza al suo compagno tra il caos e il fuoco nemico.
“Sono solo 3 minuti e mezzo ma il combattimento è durato 24 minuti. Le altre tre persone rimaste ferite nell’esplosione costituivano il nostro intero team medico perciò non c’era nessuno ad aiutarci ed io ho cercato di tenere unita la mia squadra, gestendo la situazione al meglio delle mie capacità” ha affermato Mulla. “L’unica cosa importante in quel momento era la missione: non avrei permesso che nessuno dei miei soldati venisse rapito.”
Ci sono voluti 14 minuti prima che i membri del suo team riuscissero a ricevere i primi soccorsi.
Le ferite del comandante
Quando la squadra di soccorso ha raggiunto Mulla, si è accorta subito che il comandante aveva più di 140 schegge conficcate nel corpo, dal piede destro fino al collo.
“Avevo perso 3 litri di sangue. Riportavo danni ai nervi delle gambe e un buco nello stomaco causato dalle schegge” ha spiegato Maayan che è stato caricato subito sull’elicottero dell’equipe medica.
Qui ha incontrato la dottoressa Roni Sharon, sua amica di lunga data, che non aveva idea che lui fosse a Gaza.
“Maayan, cosa ci fai qui?” ha gridato la dottoressa e, capendo subito la gravità della situazione, nei 14 minuti di volo verso l’ospedale ha effettuato un intervento d’urgenza per rimuovere le schegge dalle costole di Mulla, salvandogli la vita.
“L’arrivo all’Ospedale di Sheba è stato come un film. Il mio corpo era lì ma la mia mente era a Gaza e continuavo a pensare che sarei tornato presto” ha raccontato l’ex comandante. “Cercavo di convincere tutti che stavo bene, ma negli occhi dei dottori capivo che non sarebbe stato così.”
Maayan si è sottoposto a più di 7 interventi chirurgici, 5 dei quali alle gambe, ed ha dovuto affrontare un lungo e faticoso processo di riabilitazione in Israele, lontano dalla sua famiglia in India.
È stato su una sedia a rotelle per 5 mesi e mezzo e le ferite gli hanno fatto perdere l’80% dell’udito dall’orecchio destro.
Un recupero “completo” potrebbe richiedere almeno 5 anni, ma Maayan sa che non tornerà più come prima.
“Cosa avrei potuto fare? Portare la mia famiglia in Israele? I miei figli non sapevano studiare in ebraico nonostante fosse la loro lingua madre. E cosa avrei fatto con la mia azienda?” sono queste le domande che Maayan si è posto in ospedale. “Era una situazione difficile ma sapevo che non dovevo caderne vittima. Anzi dovevo lottare per renderla migliore!”
Mulla ha concluso l’incontro spiegando come il vedere volontari che arrivavano da ogni parte del mondo per aiutare i feriti israeliani in ospedale gli ha aperto gli occhi sulla vera forza della comunità ebraica: “non dobbiamo mai smettere di aiutarci e darci speranza l’un l’altro. Questa non è solo la guerra d’Israele bensì la guerra dell’intera comunità ebraica mondiale. È la guerra per far sì che ciò che è successo il 7 ottobre non riaccada mai più.”
P.B.
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“Il 7 ottobre ha cambiato il mondo. Non solo per gli ebrei, ma per l’umanità”. L’intervista a Mosaico
Maayan, lei era in India il 7 ottobre, quando ha deciso di tornare in Israele per arruolarsi in Tzahal. Quali sono le ragioni che l’hanno mossa a compiere questo gesto?
“Quello che so è che abbiamo solo un Paese ed è Israele, lo Stato delle Comunità ebraiche del mondo. Noi abbiamo un impegno verso questo Paese e nei confronti della Comunità. A seguito del 7 ottobre ho pensato che ognuno dovesse fare quanto poteva. Un’ora dopo che ho capito cosa stesse accadendo, ovvero verso le 8 e mezza israeliane, ho realizzato che se non fossi andato in Israele non me lo sarei mai perdonato”.
Poi le è successo qualcosa tra le strade imprevedibili di Gaza. Potrebbe riassumerlo?
“Sono andato in Israele volontariamente, nessuno mi ha chiamato. Io ho servito l’esercito per 14 anni dopodiché ho deciso di lasciare il militare per iniziare una nuova vita. A seguito del 7 ottobre ho scelto di tornare. Non mi importava cosa mi assegnassero da fare, perché avrei fatto di tutto per aiutare: soldato regolare, autista, qualunque posizione. Ho ricevuto tre missioni differenti. Inizialmente sono stato incaricato di pulire e seppellire i corpi, dopo 10 giorni mi hanno nominato leader di un’operazione speciale da condurre a Gaza, successivamente mi hanno dato una nuova posizione come Comandante del Battaglione degli Ingegneri perché ero cresciuto in quell’unità. Il 27 ottobre siamo entrati a Gaza, di venerdì notte. A Jabalia, il 12 dicembre, alle 14:30 del pomeriggio, abbiamo condotto un’operazione speciale, critica, nel campo di rifugiati: dovevamo far saltare in aria alcuni edifici relativi ai terroristi responsabili del 7 ottobre. Sapevamo al cento per cento che loro erano dentro l’edificio e che erano gli artefici dei disastri nei kibbutzim, avevamo le evidenze, ma le posizioni degli edifici rendevano molto difficile l’entrata. Sulla strada, appena alcuni metri prima di entrare negli edifici, Hamas ci ha teso un’imboscata. Uno dei miei è morto sul campo. Quella domenica aveva festeggiato il suo compleanno ebraico, aveva 20 anni.
A causa dei combattimenti sono rimaste ferite sei persone, tre in maniera molto grave, altre tre in maniera meno grave. Io ero uno di quelli più gravemente feriti, ma inizialmente non l’avevo capito. Quando sei il comandante di un’unità pensi agli obiettivi della missione, non ti interessa del tuo corpo, non senti il dolore, sei unicamente concentrato nel finire quello che devi fare. Mi sono ritrovato a gestire tutto il combattimento ed ero l’unico comandante lì, provvedendo per il supporto medico perché le tre persone ferite mediamente erano la nostra squadra di medici. È stato un grande scontro, per 70 minuti nessuno si è potuto avvicinare perché volavano proiettili dappertutto. Ho cercato di dare il primo soccorso medico assolutamente necessario per la sopravvivenza dei feriti più gravi. Quando una squadra di soccorso è riuscita a raggiungerci, un dottore mi si è avvicinato e mi ha detto che ero pieno di sangue. In quel momento mi sono guardato e avevo una scheggia molto grande tra le costole che è entrata nella prima linea di protezione del fianco. Ho perso più di due litri e mezzo di sangue e quando mi hanno salvato mi hanno portato all’ospedale: avevo più di 100 schegge, gravi danni ai nervi, all’elevatore, il mio balbettio è esploso, il braccio destro si è danneggiato, ho perso l’udito all’orecchio destro, ho avuto un danno celebrale al cervello e ho ancora un centinaio di schegge nel corpo. È qualcosa che resterà con me per sempre. Sono già stato operato undici volte e ricoverato per circa 247 giorni e ne ho ancora da fare”
Secondo lei, prima di entrare in Gaza e tutt’ora, è cambiata l’opinione della società israeliana nei confronti dell’esercito rispetto a quanto successo?
“Io non credo che ci sia stato un cambiamento nel capire cosa succeda, posso dire che questa è la mia quarta guerra, sono stato già in Libano nel 2006 e già a Gaza. L’apprezzamento e l’aspettativa dei soldati dopo il 7 ottobre è sempre stata in crescendo. Controllare la mentalità dei soldati affinché agissero come tali è stata una delle sfide più impegnative. Quello che abbiamo visto il 7 ottobre è qualcosa che un essere umano non dovrebbe vedere mai. Quando si pensa a tutta la barbarie con cui hanno agito, quello che verrebbe istintivamente da fare è ripagarli. Il fatto che non abbiamo perso il controllo è qualcosa che mi rende molto fiero sia nei confronti dei nostri soldati sia delle Comunità ebraiche. Abbiamo fatto tutto ciò che ci si aspetta da un soldato, non da terroristi. Questo è il modo in cui abbiamo agito in Gaza ed è così che le persone parlano dei nostri soldati fuori.
Non è tutto un arcobaleno, c’è una guerra con delle sfide da affrontare ma alla fine ci chiederemo cosa abbiamo fatto e dovremmo rimanere focalizzati sulle missioni, senza distrazioni e lasciando fuori le emozioni. Nella mia unità c’erano 700 soldati sotto di me, tra loro c’era chi aveva perso la famiglia, i fratelli, gli amici; loro hanno fatto ciò che c’era bisogno da fare e questo è qualcosa di incredibile. La stragrande maggioranza delle persone, quando c’è un pericolo, scappa. Noi abbiamo visto il pericolo e ci siamo andati dentro. Questo è un approccio totalmente diverso ed è qualcosa legato alla nostra Comunità ebraica mondiale, di cui, dopo tanti anni vissuti all’estero, ho capito l’importanza e la sua connessione con Israele. Siamo tutti uniti, come un grande puzzle; se manca un piccolo pezzo, il puzzle non è completo. Oggi la nostra sfida più grande è connettere Israele con gli altri Paesi. È difficile da gestire, perché il mondo è stanco della guerra e la sua continuazione è qualcosa che gli altri fanno difficoltà ad accettare, ma bisogna trovare una soluzione affinché i politici degli altri Stati supportino Israele: questa è la missione principale delle comunità ebraiche nel mondo. Se presentiamo le nostre comunità in un buon modo, andrà bene”.
Collegandomi a questo, come pensa che nel resto del mondo, per esempio nel Paese nel quale viveva, vedano Israele e le Comunità ebraiche?
“Non sono un politico e non voglio entrare in questioni politiche ma posso dire di aver capito che il governo di Israele ha un gran lavoro da fare nel connettersi alle opinioni pubbliche degli altri Stati. Per esempio, in India noi abbiamo supporto: loro capiscono perfettamente la situazione. Nei Paesi occidentali, come in Europa o negli Stati Uniti, la guerra stanca, quindi Israele ha una finestra di due, tre, quattro mesi per concluderla, ma sfortunatamente è impossibile risolvere la questione in termini così rapidi. Se si vuole ripulire il territorio, questa operazione richiede molto tempo. A Gaza ci sono ancora degli ostaggi e non si ha qualcuno con cui contrattare, perché dall’altra parte c’è un’organizzazione terroristica che non ha standard, loro fanno quello che vogliono. Questa è la sfida più grande.
Se vogliamo finire la guerra – come infatti vogliamo – abbiamo bisogno di tutto l’aiuto possibile degli altri Paesi, affinché facciano pressione su questa organizzazione terroristica. La maggioranza delle persone crede che questa guerra sia dello Stato d’Israele: non è la realtà. Il 7 ottobre ha cambiato il mondo. Non solo per gli ebrei, per l’umanità. Se un’organizzazione terroristica supera l’ISIS, questa è la chiave di ogni cellula terroristica per agire contro cristiani, indù, o qualsiasi altra persona. Noi, persone che viviamo sulla Terra, non possiamo aiutare e supportare tali organizzazioni. Questo conflitto è iniziato in Israele ma è la guerra di tutte le comunità ebraiche del globo e di tutto il mondo contro persone che compiono azioni di questo genere. Uccidere bambini, una donna incinta, è inaccettabile come essere umani. Secondo me l’unico modo per finire la guerra in una buona maniera è mettere da parte le agende politiche e restare insieme. Quando siamo insieme, nessuno può entrare dentro; quando siamo divisi, c’è una fessura nella quale insidiarsi. “Basta terrore” dovrebbe essere il messaggio che unisce l’Europa. Guardiamo cosa succede in Francia, nel Regno Unito… i governi non sanno cosa fare. Non importa se si è a destra, sinistra, o al centro, la questione è facile: si tollerano azioni di questo tipo? Sì o no? Se si risponde affermativamente, allora non si merita di essere qui. È molto semplice”.
L.I.