Il fascino discreto dell’ebraismo

Personaggi e Storie

 

Il fascino discreto dell’’ebraismo.

Per l’’ottimismo prudente, per il riformismo equilibrato, per la competenza e la semplicità calvinista.
Un’’austera morigeratezza che ben si accompagna con una vita spesa a studiare, a insegnare e a cercare di conoscere praticamente tutto in fatto di diritto societario, un terreno minato, immenso e complesso. Forse per queste e molte altre doti Piergaetano Marchetti, 70 anni, è stato scelto dai grandi soci del gruppo Rizzoli-Corriere della Sera. Presidente di Rcs Mediagroup – carica che gli è stata appena rinnovata per altri tre anni -, pro-rettore dell’Università Bocconi dove ha fondato il dipartimento di Diritto, notaio dell’alta finanza milanese tra i più conosciuti e stimati, appassionato bibliofilo (possiede una biblioteca immensa, 80 metri lineari di libri a tutta altezza), Marchetti è oggi una delle figure chiave del mondo dei media e dell’editoria italiana.
Equidistante, razionale, riservato, una vita spesa come ago della bilancia, Marchetti divide la sua giornata in tre parti: le aule dell’università Bocconi, l’attività di studio, l’ufficio di via Solferino. Con due nonni ebrei, un terzo protestante e l’altro cattolico come poteva non risultare meno che equilibrato? Un mediatore amante del rigore, indipendente ed estraneo a lobby. La qual cosa lo ha spinto a dare nuovo slancio e vigore alla Fondazione Corriere della Sera che dal suo arrivo, cinque anni fa, oggi conosce una stagione di grande qualità e brillantezza: dibattiti, presentazioni di libri, incontri e confronti tra le menti più aperte del Paese. E infine, una preziosa collana di libri, piccoli gioielli di saggistica.

Presidente Marchetti, la sua famiglia paterna è originaria dell’alto lago di Como. Ma, in parte, lei ha anche origini ebraico-sefardite, in particolare greco-turche…
Sì. La famiglia di mia madre, Frida Matalon, emigrò in Italia agli inizi del Novecento da Salonicco e da Smirne. Era una famiglia ebraica non osservante ma profondamente legata alle proprie radici, in cui veniva tramandata un’attenzione fortissima per la cultura ebraica e che seguiva con grande coinvolgimento tutte le vicende dell’Yishuv, nella Palestina britannica di allora: una simpatia che portò poi mia zia ad accarezzare l’idea di emigrarvi. In Italia, non avendo qui nessun parente, non non subirono gravi contraccolpi nel periodo delle Leggi Razziali: poterono nascondersi senza essere denunciati. La famiglia si rifugiò in Versilia, vicino a Sant’Anna di Stazzema e visse sotto falsa identità per tutto il periodo della guerra. Abbiamo un solo parente, un cugino, Sandro Nahmias, che fu deportato a Mauthausen, ma come prigioniero politico, perché era segretario di Ferruccio Parri e militante del Partito d’Azione.
Mia zia, Stella Matalon, in seguito avrebbe insegnato alla Scuola ebraica di Milano, negli anni Cinquanta e Sessanta e poi sarebbe diventata Soprintendente alle Belle Arti a Milano e in Lombardia. Entrambe ricordavano le feste ebraiche. Io conservo ancora il tallet e il tefillin di mio nonno. Mio padre era un uomo di sinistra, ma convinto sionista.

A ben guardare, con due nonni ebrei, uno protestante, l’altro cattolico, lei è un campione vivente di mélange religioso. Che parte ha l’identità ebraica nella sua vita di oggi?
Sento una forte radice culturale, sento il fascino intellettuale di una tradizione così ricca e sfaccettata. Riconosco in me una certa propensione al ragionamento critico e analitico, tipica del modo di procedere ebraico. E anche in molti tratti della mia formazione: una sensibilità per la Legge, per il dover essere, per l’etica e la speculazione filosofica. Io sono profondamente laico. Ma so che è dal mio retaggio ebraico che mi viene questa grande sensibilità per la tutela delle minoranze, dei diversi, nonché la lotta contro qualsiasi forma di razzismo, di xenofobia. Sono orgoglioso inoltre dalla capillarità con cui la componente ebraica è presente nella storia del Novecento. Penso alle figure chiave del movimento bolscevico, da Bucharin a Trotzki, agli inizi del secolo scorso, alla letteratura della Finis Austriae, da Franz Werfel a Karl Kraus…, o alle figure chiave che hanno edificato il Diritto commerciale italiano, materia in cui io sono specializzato. Penso a professori come Ascoli, Supino, Bolaffi, Ascarelli, Bigiavi, Sraffa e molti altri…

Che rapporti ha con Israele e col mondo ebraico italiano?
Ho piena simpatia per Israele e le sue ragioni. Ma tengo a dire quanto sia per me importante mantenere un atteggiamento critico, esattamente come accade a molte componenti stesse dell’opinione pubblica israeliana. Certo non dobbiamo nasconderci che i boicottaggi, anche a livello accademico e universitario, altro non sono che rigurgiti di antisemitismo. Assistiamo un po’ ovunque e non solo in Italia, a forme di razzismo strisciante che per ora non colpiscono il mondo ebraico, ma prima o poi potranno rivolgersi contro di esso, con forme di intolleranza e antisemitismo. È un pericolo, e dobbiamo vigilare contro il risorgere di vecchi pregiudizi.

Come giudica l’atteggiamento dei media e giornali italiani verso la questione mediorientale?
Credo che complessivamente oggi la stampa abbia un atteggiamento corretto, forse non sempre equidistante, ma certo molto più aperto rispetto a qualche anno fa. L’ambasciatore d’Israele, Gideon Meir, spesso si è complimentato per l’atteggiamento equilibrato del Corriere della Sera verso Israele. Ciò non toglie che si debba essere sempre molto vigili. Specie perché uno strisciante pregiudizio antisemita può a volte mascherarsi dietro alle critiche rivolte a Israele. Ripeto, occorre la massima vigilanza da parte di tutti. Due pesi e due misure a seconda che si parli di palestinesi o di Israele? Sì, è un problema ricorrente nei media, un tema niente affatto superato. Il fatto è che i giornali italiani, in generale, patiscono di un deficit di attenzione e informazione sulla politica estera, ivi incluso il Medioriente. L’attenzione si risveglia solo quando scoppia una crisi ma non è un’attenzione fisiologica e costante. In definitiva direi che no, non c’è in Italia un’informazione adeguata e regolare sul Medioriente. Ad esempio nessuno sa niente circa i rapporti, spesso proficui e positivi, tra Israele e le aree asiatiche, o del resto del mondo. Se poniamo l’esistenza dello Stato d’Israele come statement irrinunciabile che nessuno può mettere in discussione, allora – e solo in questo caso -, ci può stare una libertà di critica. Perché in definitiva una stampa libera e pluralistica deve sempre poter dare giudizi. Essere amici di Israele, partecipare alla sua vita politica e sentirlo vicino non significa non poter criticarlo, anche aspramente. Con il limite invalicabile della garanzia e del suo diritto ad un’esistenza nella sicurezza.

Lei è mai stato in Israele?
Sì, più volte. Mi ha colpito la facilità del contatto umano, l’estrema franchezza e varietà di opinioni che animano il dibattito pubblico, il forte realismo con cui temi cruciali vengono discussi. È una società che vive sempre sopra le righe, con una forte tensione interna. Ma è miracoloso che un paese assediato, che vive in perenne stato di guerra e di allarme, sia riuscito a conseguire importantissimi risultati in campo scientifico e abbia raggiunto livelli di eccellenza in così tanti campi della ricerca e delle scienze umane, dalle nanotecnologie all’economia alla sociologia. Inoltre penso che la letteratura contemporanea più interessante oggi sia proprio quella israeliana. Il nuovo viene in gran parte da lì, da questa realtà in trincea dove tutto ha un sapore primigenio, drammaticamente precario, una corda interiore così tesa e vibrante da saper generare capolavori letterari.