di David Zebuloni
Numerosi studi scientifici dimostrano che i neonati che ricevono affetto e calore nelle prime fasi della loro vita, crescono più sani e più felici. Secondo gli psicologi il contatto umano, specie quello materno, ha una forza straordinaria che oltrepassa la pelle e arriva sino all’anima. L’amore trasmesso al bambino si tramuta dunque in anticorpi, in benessere, in salute, in autostima, in ottimismo. Alcuni ricercatori sostengono persino che un contatto quotidiano e prolungato può migliore le capacità cognitive del neonato, e non solo quelle emotive. Sulla base di questi studi è nata in Israele l’Associazione Chibbuk Rishon, che in italiano significa “Il primo abbraccio”.
Dal 2004 un gruppo composto da 500 volontarie si incontra negli ospedali di tutto il paese per assistere le centinaia e centinaia di neonati che vengono abbandonati nei reparti di neonatologia ogni anno. Prima di essere ammesse all’Associazione, le volontarie devono passare un periodo di preparazione e vengono accompagnate passo per passo da un’assistente sociale specializzata. Al termine di questo processo, ad ogni volontaria viene assegnato un neonato.
L’obiettivo è quello di assegnare una sola volontaria ad ogni neonato in modo tale da non confondere quest’ultimo con troppe figure diverse. La volontaria in questione comincia dunque il suo lavoro di mamma momentanea, coccolando il piccolo o la piccola, cantando canzoni, accarezzando, leggendo favole o più semplicemente, abbracciando e trasmettendo affetto e calore umano. Tutto ciò accade fino alla dimissione del neonato dall’ospedale, ma nei mesi successivi al rilascio la volontaria continua le sue visite periodiche, fino al giorno in cui vengono trovati dei genitori adottivi idonei.
Nel 2019 la rete televisiva israeliana YES ha trasmesso un documentario intitolato “Insieme da soli” che racconta la storia di Ravit, una volontaria che da dodici anni a questa parte passa di ospedale in ospedale per abbracciare i neonati abbandonati. “Lo faccio da molto tempo, eppure non mi ci sono ancora abituata”, racconta Ravit alle telecamere. “Abbraccio questi bambini con la speranza che non si sentano mai soli”, aggiunge commossa. Lo spettatore viene presto catapultato nel reparto di neonatologia dell’ospedale Hichilov, in quello che si rivela essere un viaggio struggente volto ad esplorare il mondo interiore di Ravit.
Chi filma e chi guarda non può evitare di domandarsi il perché di tutto ciò. Per quale motivo una persona dovrebbe dedicare la propria vita a questa causa? “Donando un abbraccio Ravit cerca di spiegarci qualcosa”, commenta a riguardo Maya Tiberman, autrice del documentario. “Donando un abbraccio Ravit ci sta dicendo che anche lei è in cerca di un abbraccio, che in fondo lei abbraccia perché ha bisogno di sentirsi abbracciata a sua volta”.
Ed ecco la risposta. L’abbraccio non è mai univoco, ma sempre reciproco. L’abbraccio è un dono che viene sempre rispedito al mittente. E il primo, il primo abbraccio, non si scorda mai.