di David Zebuloni
Riccardo Klement. Questo fu il nome che Adolf Eichmann scelse per ricominciare la propria vita in Argentina. Dopo la strage, dopo i sei milioni di ebrei uccisi, dopo i convogli da lui stesso organizzati per raggiungere la Polonia da ogni angolo dell’Europa, Eichmann cercò il silenzio e la libertà lontano dalla stessa Germania che aveva servito tanto fedelmente.
Quando l’11 Maggio del 1960 il Mossad, dopo averlo trovato a Buenos Aires, lo rapì affinché venisse processato in Israele per i crimini commessi durante la guerra, un capitolo di storia venne riscritto. Quella memoria sofferta che era stata messa a tacere, assunse d’un tratto un valore inestimabile. I superstiti che fino a quel giorno non erano stati ascoltati, si ritrovarono improvvisamente sotto i riflettori.
“Sentii l’impulso di scrivere la mia storia dopo il Processo Eichmann”, racconta la superstite Halina Birenbaum in un’intervista rilasciata al Bet Magazine. “Seguii tutto il processo. Trascorrevo le giornate incollata alla radio per ascoltare le testimonianze, per vedere se mi riconoscevo nei loro racconti. Ma ciò non accadde. Si parlò soltanto di morte e di sterminio, nessuno raccontò della speranza di sopravvivere che tutti noi nutrivamo, dell’enorme attaccamento alla vita. Nessuno raccontò questi frammenti di vita, di compassione, di amore. Allora lo feci io.”
Halina non fu l’unica a ritrovare la parola perduta in seguito al processo. Come spiega Elena Loewenthal nel suo libro Contro il Giorno della Memoria, il processo Eichmann rappresentò lo spartiacque che divideva il prima e il dopo della Memoria. Il periodo che intercorre dal mutismo alla parola.
Ad aprire le porte del tribunale al pubblico di lettori fu invece Hannah Arendt, inviata del settimanale New Yorker e presente in aula per tutta la durata del processo, che scrisse il saggio diventato best seller La banalità del male. Nella sua opera la Arendt sviscera il caso Eichmann arrivando alla sua radice. La radice del male, appunto. Tanto banale ai suoi occhi, da risultare ancora più terribile. Eichmann, infatti, si giustificò di fronte ai giudici insinuando di aver semplicemente eseguito gli ordini come qualunque soldato avrebbe dovuto fare durante la guerra.
A questo proposito, alcuni tra i più grandi psicologi del ventunesimo secolo hanno cercato di capire quanto fosse sottile il confine che divide compassione e sadismo. Gli esperimenti di Philip Zimbardo e Stanley Milgram, per esempio, sono passati alla storia e hanno segnato profondamente lo studio della psiche umana.
Nel suo esperimento più celebre, mosso dal desiderio di comprendere l’autenticità dell’autogiustificazione di Eichmann, Milgram provò a misurare quanto dolore poteva essere in grado di infliggere una persona normale ad un altro soggetto se solo gli fosse stato dato l’ordine di farlo. Nell’esperimento in questione un volontario doveva rilasciare delle scariche elettriche ad un altro volontario, seduto nella stanza accanto e collegato ad una sedia elettrica, ogni volta che quest’ultimo rispondeva erroneamente al suo questionario. Al torturatore venne spiegato che ogni errore poteva comportare un aumento del voltaggio e che nel caso in cui il voltaggio fosse arrivato a 450 volt, la persona seduta nella stanza accanto sulla sedia elettrica sarebbe morta. Il risultato fu sconcertante. Il 65% dei torturatori applicarono scariche elettriche di 450 volt “uccidendo” così i corrispondenti in questione. Naturalmente nessuno morì nell’esperimento, in quanto nessun volontario venne realmente collegato alla sedia elettrica, ma il risultato riuscì comunque a turbare Milgram.
Sessant’anni dopo, il processo Eichmann non smette di turbare. Nel 2018 viene distribuito nelle sale cinematografiche statunitensi il film Operation Finale, trasmesso successivamente anche su Netflix. Nell’opera in questione il personaggio di Eichmann viene rappresentato sotto una luce del tutto diversa. Nell’interpretazione struggente dell’attore Ben Kingsley, il vecchio nazista riesce quasi a convincere lo spettatore della sua innocenza e l’immagine della condanna suscita tanta empatia da spingere chi guarda a domandarsi se tutto sommato egli non avesse poi ragione.
Ed ecco la banalità del male. Ecco il pericolo al quale la Memoria viene costantemente esposta. La capacità di riscrivere la storia diventa una minaccia per chi ricorda e un’opportunità per chi nega. Scopriamo dunque che sessant’anni dopo il processo Eichmann, l’urgenza di gettare luce sul male banale e assoluto risulta più impellente che mai. Prima che sia troppo tardi.