di Luciano Assin
Non penso ci sia un israeliano dai trent’anni in su che non sappia dire dove si trovasse e cosa facesse la sera del 4 novembre 1995, la sera dell’omicidio di Itzhak Rabin. Io ero a casa mia, tornato qualche giorno prima da un mese da riservista dell’esercito in Libano. La stanchezza accumulata e la voglia di restare in famiglia mi convinsero alla fine a non partecipare alla manifestazione organizzata dalle sinistre in appoggio a Rabin, bersaglio di continui e violenti attacchi verbali nei suoi confronti.
Le prime confuse notizie vennero trasmesse alla radio intorno alle 22:00, si parlava dell’attentato, degli spari e del fatto che Rabin fosse stato ferito e trasportato ad un vicino ospedale. Ma la mia ahime’ lunga esperienza su come venivano riportate le notizie sugli attentati in Israele, dove il numero delle vittime aumentava di comunicato in comunicato, mi fece capire immediatamente che Rabin era già morto. Mi ricordo che la prima cosa che pensai fu che l’attentatore doveva essere per forza un arabo e di come avrebbe reagito Israele militarmente e politicamente.
Nonostante l’atmosfera politica di quei giorni fosse satura di violenza verbale, ancora la maggior parte di noi viveva nell’ingenua convinzione che mai e poi mai sarebbe potuto succedere un fatto del genere. La democrazia israeliana è solida, pensavamo, ed è in grado di superare anche un momento difficile come questo. Ma l’atmosfera politica interna era così impregnata di violenza, odio e intolleranza che solo l’ottimismo degli accordi di Oslo poteva in qualche maniera offuscare.
È vero che Ygal Amir, l’assassino di Rabin, agì praticamente da solo, aiutato parzialmente dal fratello, ma è indubbio che l’atmosfera di quel periodo favorì e incoraggiò in maniera decisiva la decisione di agire. In una ormai tristemente famosa manifestazione organizzata dalle destre esattamente un mese prima dell’assassinio, oltre a slogan come “Rabin assassino” e “Rabin traditore” venne fatto circolare un volantino nel quale Rabin indossava un’uniforme da SS. I leader delle destre di allora, Netanyahu e Sharon, sottovalutarono quell’ondata di odio e in un certo senso la incoraggiarono per favorire i loro scopi politici.
L’ironia della sorte volle che proprio Netanyahu, eletto nelle politiche svoltesi l’anno successivo, continuasse gli accordi di Oslo effettuando concessioni territoriali a favore dei palestinesi, in aperto contrasto con le roboanti dichiarazioni della campagna elettorale.
L’immagine più struggente di quella maledetta notte è quella di Rabin intento a cantare “shir hashalom”, la canzone della pace, insieme a Shimon Peres ed ai numerosi cantanti presenti con lui sul palco. Improvvisamente questo soldato, veterano di tante battaglie, impegnato nella battaglia più importante, quella della pace, assume un’aria così umana: nonostante la sua voce così stonata è lì con gli altri, anche se il suo sguardo imbarazzato quasi chiedeva scusa di rovinare l’armonia della musica.
Quando tutto sarà finito, troveranno nel taschino della sua giacca un foglietto con il testo della canzone imbrattato del suo sangue.
La storia non si fa con i “se” e con i “ma”, ed è probabile che Rabin stesso, stanco delle promesse mancate di Arafat, avrebbe ridotto notevolmente i successivi passi previsti dagli accordi di Oslo. Ma è oltremodo inaccettabile pensare che in un regime democratico la violenza verbale e fisica possa avere ragione del dialogo e dei voleri della maggioranza. Gli stessi leader della destra possono diventare il bersaglio del prossimo attentato, a dimostrazione che nessuno è immune alla retorica nazionalistica e messianica. Se fino a poco tempo fa era chiaro che una minoranza, seppure estremamente radicale, non poteva modificare le scelte di un governo democraticamente eletto, la realtà attuale è molto diversa e la risposta non è per niente scontata.
Il popolo israeliano rimane ancora una realtà fondalmentalmente pragmatica, disposta a mettere da parte l’ideologia di fronte ad un buon affare. Ed un accordo di pace giusto e duraturo lo è senz’altro.