di Fiona Diwan
A pochi giorni dal Referendum Costituzionale, pubblichiamo un’intervista esclusiva al Ministro Maria Elena Boschi.
In che misura l’approvazione della Riforma renderà più facile attuare quella parte della Costituzione che riguarda i diritti fondamentali – quindi anche quelli delle donne e delle minoranze tra cui la minoranza ebraica – che il bicameralismo perfetto ha reso più macchinose?
“I principi fondamentali contenuti nella prima parte della Costituzione non vengono toccati dalla riforma. Neanche di una virgola. Quella che viene modificata è la seconda parte, ed è una modifica che va nella direzione di dare anche maggiore forza ai principi che sono alla base della nostra Carta Costituzionale. Se il 4 dicembre vincerà il Sì porremo fine al “ping pong” tra Camera e Senato che in questi anni ha portato all’approvazione con mesi, a volte anni, di ritardo di tante leggi. Pensiamo, per fare un esempio, alla legge sul negazionismo: per approvarla ci sono voluti 1.178 giorni e quattro passaggi parlamentari (dal 15 marzo 2013 all’8 giugno 2016). Se il 4 dicembre vince il Sì avremo istituzioni più efficienti e più semplici, in grado di rispondere prima ad una società che cambia rapidamente e che ha esigenze sempre nuove. Il nuovo art.55, se vince il Sì, introduce il principio dell’equilibro di genere nelle istituzioni, favorendo la partecipazione femminile alla vita democratica”.
In altre parole: la Riforma introduce alcuni nuovi meccanismi di garanzia per le minoranze, che non sono stati sottolineati abbastanza. Ce li può descrivere?
“L’obbligo nei regolamenti parlamentari di tutelare i diritti delle minoranze e l’obbligo del regolamento della Camera dei deputati di prevedere uno statuto delle opposizioni introducono per la prima volta un elemento di effettività nella garanzia di minoranze e opposizioni. A questo si aggiunge la facilitazione prevista per il raggiungimento del quorum per la partecipazione al referendum abrogativo, cioè quello strumento potentissimo con cui i cittadini possono addirittura cancellare le leggi del Parlamento, oggi di difficile applicazione. E poi c’è l’introduzione dei referendum propositivi, di indirizzo e delle altre forme di consultazione che costituiscono norme in favore della partecipazione popolare, quindi anche delle minoranze, alle scelte pubbliche”.
In che modo in Senato la voce dei territori sarà più forte rispetto ad oggi e quali le competenze che ne trarranno giovamento?
Se il 4 dicembre vincerà il Sì i rappresentanti delle istituzioni territoriali saranno membri del Senato, cioè i sindaci e i consiglieri regionali eletti dai cittadini di ciascuna regione. Attraverso la partecipazione al procedimento legislativo porteranno nel nuovo Senato le esigenze dei rispettivi territori. Il Senato diventerà il luogo in cui i territori partecipano fin dall’inizio alle scelte che riguardano tutto il Paese. Una volta deciso insieme, a monte, si eviteranno i continui ricorsi, a valle, tra Stato e Regioni che oggi occupano il 40 per cento della Corte costituzionale e bloccano le scelte di imprenditori e cittadini, ma spesso anche degli amministratori locali.
Uno dei punti della Riforma che hanno suscitato critiche è il nuovo Senato che ha meccanismi di elezione e attribuzione di poteri piuttosto complessi. L’esperienza del monocameralismo funziona piuttosto bene in Israele come in altri paesi, per esempio Finlandia e Svezia. Perché si è deciso di non abolire semplicemente il Senato?
“Con grande sincerità: il Senato non è stato abolito perché in Parlamento non c’erano i numeri, non c’era la volontà politica di andare in questa direzione. Inoltre ogni paese ha la sua storia e le sue soluzioni per far funzionare le istituzioni. Noi abbiamo raccolto l’esperienza del comitato di esperti costituzionalisti voluto dal governo Letta( che aveva proposto il Senato delle autonomie) ma anche l’elaborazione di oltre 30 anni di dibattiti. In Italia, visto il ruolo importante di Comuni e Regioni, avere una Camera che li rappresenti è sempre stato considerato un elemento positivo”.
Uguaglianza. Parliamo soprattutto di Sanità e di quelle competenze che rimanendo in capo alle Regioni creano molte disparità tra i vari cittadini italiani. In che modo questa Riforma, riportando in capo al governo centrale alcune competenze attualmente regionali, farà sì che sia maggiormente rispettato il principio di uguaglianza tra i cittadini?
“La riforma del Titolo V del 2001 che – delegando a Regioni e Province autonome l’organizzazione e la gestione dei servizi sanitari – puntava ad un “federalismo solidale”, ha finito per generare una deriva regionalista, con 21 differenti sistemi sanitari dove l’accesso a servizi e prestazioni sanitarie è profondamente diversificato e iniquo. Oggi la sanità non costa allo stesso modo in tutte le Regioni: con la riforma si mettono in Costituzione i costi standard, e questo vuol dire che una siringa costerà ovunque allo stesso modo. Inoltre è inaccettabile che i farmaci in alcune Regioni siano nel prontuario e in altre no. Non ci saranno più cittadini di serie A e serie B, a prescindere da dove vivono. Se il 4 dicembre vince il Sì si mette chiarezza tra Stato e Regioni e soprattutto si dà un taglio alla burocrazia, semplificando le regole. Con la riforma avremo non meno democrazia ma meno burocrazia”.