di Valeria Ottolenghi *
Suo padre l’aveva fermata sulla porta. “Fammi vedere! Sei matta?”. Lei aveva salutato frettolosamente i genitori, un po’ come al solito quando usciva. Lui aveva colto qualcosa di diverso? Forse. “Sei consapevole di cosa stai facendo?”. Lei non aveva detto niente, ma lo aveva guardato dritto negli occhi. Un gioco antico, che lui ammirava, lei lo sapeva. “Non puoi uscire vestita così”: il tono era già più pacato, pronto alla discussione, meno perentorio. “Sai il pericolo che corri?”. Lei continuava a guardarlo. Entrambi sapevano che non era la domanda giusta. Lei stava quasi per ridere e dire “davvero?” come in certi confronti dialettici tra loro. Lei era una sua creatura – ed era orgogliosa di questo. Per questo era sempre più brava degli altri nelle discussioni più ardue, a scuola, con gli amici, a volte anche in situazioni pubbliche, con gli adulti, che spesso la guardavano in modo buffo, come se fosse una sorta di robot teleguidato. Sospettosi anche: qualcuno sapeva di chi fosse figlia.
“È pericoloso, davvero”. Ora c’era quasi una sorta di preghiera nella sua voce, l’aspetto affettivo prevalente. E subito un altro errore: “Hai parlato con Moshe, vero?” A questo punto Nina sorrise veramente, le parole di suo padre la stavano rilassando, diminuito lo stato di allerta. “Stai dicendo che il mio pensiero deriva da quello di un altro?” Tre punti per lei! Moshe era stato un amico – e anche di più. Viveva al piano sopra il loro, i genitori morti in un incidente, ad alta velocità contro un camion in autostrada. Moshe aveva tredici anni. Con naturalezza era stato accolto in casa di Nina. Aveva vissuto con loro per più di due anni. Poi erano venuti i nonni, che abitavano in Israele e avevano voluto che Moshe ripartisse con loro. Erano i genitori della mamma: in quel tempo si erano sentiti spesso. A volte anche tutti insieme, al computer, loro simpatici, affettuosi, il più delle volte a tavola, la sera. Nina sapeva che arrivavano anche dei soldi, che però suo padre metteva in un conto a parte. Bello essere ricchi, più volte si era trovata a fare questo pensiero Nina.
“Fermati. Parliamo”. “Papà, devo andare, è già tardi”. Nella tensione della sfida il bacio dato con il segno della mano. Un tempo erano baci veri. Pudori adolescenziali? Ma anche il padre sembrava più attento negli abbracci, quasi timoroso. Nina scese le prime scale di corsa. Due piani in un palazzo antico. Una volta in strada le batteva il cuore. Facile con suo padre. Ma ora? Cosa sarebbe successo? Davvero poteva essere pericoloso? Vero: aveva parlato con Moshe, il giorno prima più di due ore con skype. Lui era molto cambiato. Anche se si sentivano spesso a Nina era rimasto impresso il Moshe che viveva con lei. L’immagine della partenza. Allora si erano baciati come fratelli, ma tra loro c’era stata un’intimità ben diversa: quando studiavano insieme spesso si sdraiavano vicini, si baciavano, si toccavano, tra tante reciproche scoperte. Non avevano mai parlato di questo tra loro. Discutevano di ogni cosa, ma non avevano parole per “quella cosa lì”, di cui entrambi sentivano il bisogno. Un grande piacere nel silenzio.
Dopo il 7 ottobre avevano continuato a sentirsi, più raramente forse ma ogni volta per ore. Moshe subito aveva pensato che il mondo intero – o quasi – avrebbe girato per le strade delle città con la maglietta “Io sono ebreo”, così come era accaduto dopo gli attentati in Francia, “Je suis Charlie”. Ma non era accaduto. Israele non aveva voluto che si vedessero i corpi martoriati. Non c’era stato dibattito su questo: troppo spesso gli ebrei oggetto di pietà per i racconti dei campi di sterminio, nei filmati con uomini e donne ischeletriti fatti rotolare con i trattori in fosse comuni. Con Israele il popolo ebraico aveva smesso di essere il più mite della terra, pronto ad accogliere ogni persecuzione, ogni pogrom, con la stessa rassegnazione con cui si accetta la grandine, il vento più travolgente. Questo l’errore? Bisognava chiedere ancora il pianto collettivo? E la solidarietà internazionale mostrando le mani mozzate, i bambini massacrati?
Ma lei era fuori tempo massimo. Questo le avrebbe detto suo padre. Perché Nina un paio di giorni prima era andata a farsi stampare proprio quella scritta sulla maglietta “Io sono ebrea”, azzurro su bianco. C’era un giovane in quel negozio, l’aveva guardata come per scoprire dalle sue fattezze qualcosa di quell’identità. Poi non aveva resistito. E con modi gentili, quasi timidi, le aveva chiesto: “è vero?”. Nina stava giù esercitandosi a indossarla quella maglietta: “fa differenza?”. Lui aveva taciuto per un po’, poi aveva detto “Sì”. “Perché?”, lei pronta al dialogo franco, venato appena dal piacere del contrasto. “Be’ uno è pronto a difendere la propria tribù in ogni caso”. Nina era rimasta sconcertata. Anche lei aveva taciuto per un po’. Le era piaciuta molto quella parola, “tribù”. Era rimasta un po’ contagiata dall’appartenenza di Moshe? Siamo rimasti quelli delle caverne, dei mondi primitivi? Il proprio gruppo contro gli altri?
“Come ti chiami?, posso chiedertelo?” “Nina” “Io Dario. Posso chiederti quando pensi di indossarla?” “Non so ancora, a scuola penso”. Lui era stato ancora in silenzio mentre stava preparando la maglietta, le lettere da imprimere con il calore. “Ti piace provocare? Quanti immigrati, quanti mussulmani ci sono nella tua scuola?” “Qualcuno, nella mia classe un paio di ragazze del Marocco”. “In che scuola vai?”. “Un corso di formazione”. Non era ancora riuscita a liberarsi del tutto dalla valutazione del padre sulla sua scelta, dei suoi insegnanti, come scandalizzati per la sua decisione. Con la sua intelligenza, la sua preparazione. Avrebbe potuto fare qualsiasi liceo, meglio ancora: il classico! Dario sembrava quasi più rilassato alla sua risposta, la guardava lieto. “Potresti spiegarmi? Tutti sono contro Israele in questo momento. Hai visto i telegiornali? Università occupate, scontri con la polizia…”. La maglietta era pronta, ma lui sembrava non volergliela consegnare subito. La guardava con simpatia, quasi protettivo.
Un primo esercizio, pensò lei. Non sapendo in verità cosa rispondere. Meglio: da dove cominciare. “Tu sai che Hamas ha rapito anche un bambino che ha compiuto un anno chissà dove, con chi…ammesso che sia ancora vivo”, “sì, più di cento gli ostaggi, seguo le notizie”. Era come se si conoscessero da tempo. “Ha cominciato Hamas. Perché il mondo non si è mosso? Perché hanno gridato al delitto, pronti ancora a piangere per gli ebrei, ma non c’è stata quella determinazione comune di tutto il mondo, tutti insieme, avete ucciso più di mille persone, restituite subito, immediatamente gli ostaggi. Perché non hanno chiesto ai palestinesi: se non volete essere considerati complici e sapete dove sono gli ostaggi ditelo subito, fate in modo di farlo sapere tramite gli stranieri che si trovano a Gaza, trovate il modo. Immediatamente. Ve lo chiedono gli Stati Uniti, Germania, Italia…l’Europa tutta”.
Aveva parlato in modo irruente. Non era da lei. Non con tutto l’esercizio fatto in casa. La dialettica forse la materia più importante in famiglia, con suo padre certo, ma in modo diverso, a volte anche più complesso, per vie secondarie, con sua madre. “Hai ragione, ma ora è tardi, Israele ha fatto troppi morti”. Lei lo sapeva. Lei non era d’accordo con quei bombardamenti. Non condivideva nulla con quel governo che era riuscito a formarsi, e con la destra più odiosa, promettendo quella sicurezza che poi non era riuscito a garantire. L’idea della maglietta, venuta a Moshe in parallelo a Charlie, era stata scartata proprio per i massacri di Gaza. Aveva aspettato. Poi non si poteva più. “Ora invece proprio si deve”. Non aveva fatto il suo ragionamento a voce alta e quella conclusione sembrava del tutto irrazionale. Forse lo era. Dario era però come in ascolto anche del non detto, voleva capire. La guardava in modo interrogativo, anche un po’ incantato.
“Tu sai la differenza tra israeliano e ebreo?” Stava guardando Dario come guardava a volte suo padre. E a Nina parve che ci fosse in lui lo stesso sguardo ironico. “Mi stai prendendo in giro?, gli ebrei sono ovunque nel mondo. Chi di loro ha la cittadinanza israeliana è israeliano”. Sembrava quasi dispiaciuto. Perché lavorava in un negozio credeva che fosse stupido, ignorante? Cominciò a piegare la maglietta, a prendere un sacchetto per metterla dentro. “Allora dimmi, perché è tornato l’antisemitismo, perché hanno consigliato agli ebrei dei campus americani di allontanarsi?”. Le stavano quasi venendo le lacrime agli occhi. Le succedeva quando sentiva di non riuscire a dire esattamente non solo quello che pensava, ma anche quello che sentiva, una specie d’ingorgo, d’impotenza dolorosa. Lui aveva smesso di cercare il sacchetto. “Posso dire una sciocchezza? Di stupidi è pieno il mondo”. E sorrideva guardandola.
“E noi non facciamo niente?” “Hai ragione. Ma non so se la maglietta sia una buona idea”. Sorrise in modo più ampio. Sembrò come illuminarsi. Era un bel ragazzo. “Posso offrirti un gelato? Io posso chiudere. Qui a due passi c’è una gelateria buonissima”. Lei la conosceva. Buoni davvero, con gusti strani, divertenti. “Ho pensato che vorrei che tu riuscissi a convincermi. Magari potresti essere anche più decisa con le tue compagne marocchine”. Lei lo avrebbe baciato. Davvero. Aveva bisogno di sentirsi più sicura. Sapere cosa dire. “Oh!, grazie!”. “Tieni”, “Quanto ti devo?” ”Niente. Sto imparando molto da te”. Camminarono in silenzio fino alla gelateria. Lei prese cocco e lime con zenzero, lui cioccolato e cioccolato con pera. Si sedettero fuori. E ripresero a parlare. Senza neppure mettersi d’accordo lui cominciò a fare l’”altra” parte. I territori dei palestinesi occupati, le nuove colonie, Israele imperialista…
Lei accettava le critiche, riconosceva i torti, ma ugualmente non poteva condividere il modo in cui stava reagendo l’occidente. E come si era comportato prima: mandavano gli aiuti a Gaza e non si rendevano conto che Hamas invece di rendere migliore la vita della popolazione usava milioni per costruire quei tunnel, una sorta di città sotterranea? Erano tutti così ciechi? Non sapevano che Hamas era una formazione terroristica? Sì, lei sapeva che i palestinesi erano originariamente più laici, ma poi avevano scelto – e avevano festeggiato felici dopo il 7 ottobre. Questo la faceva soprattutto infuriare: le reazioni del mondo. Forse non ci sarebbe stato neppure Israele se non ci fosse stata la Shoah: era stato il loro senso di colpa a forzare la decisione dell’Inghilterra, immediati i tanti riconoscimenti per quel piccolo stato nato da sconfinati lutti.
Era arrivata sera. Ma c’era ancora luce. Nina aveva chiesto di lui. Aveva scoperto che studiava matematica all’università, che faceva magliette e cose simili in quel negozietto che era di proprietà di suo padre per non chiedere sempre a casa. Funzionava: ormai molti gruppi sportivi andavano da lui. E poteva anche studiare. Qualche volta suo padre gli dava il cambio. Non era molto bravo, ma prendeva gli ordini con cura. “Se un giorno passi te lo faccio conoscere. È in pensione, pensione anticipata…con qualche amarezza”. Lei gli aveva spiegato la sua scelta. Avrebbe fatto il liceo, come volevano tutti, ma intanto voleva fare la parrucchiera, amava tagliare i capelli, inventare i colori, un piacere speciale. Avrebbe fatto due o tre anni insieme…Sapeva di potercela fare. Lui l’aveva rassicurata: “certamente!”. L’aveva accompagnata a casa – e aveva scoperto il cognome, ben noto in città. Improvvisamente si era sentito intimidito, molto, molto intimidito.
Aveva salutato in fretta, turbato. E intanto gli venivano in mente altre cose da dire – e non più “contro”, ma a favore del pensiero di Nina. Per esempio: come mai gli universitari arrivavano a inneggiare Hamas mentre in Iran si continuavano a perseguitare le donne senza velo, di recente condannato a morte un rapper solo in quanto tale? Gli era entrata dentro Nina – e sentiva un po’ di paura per lei. Non per le compagne marocchine, no…ma se avesse incontrato un gruppetto di fanatici, no, neppure tali, solo pieni di rabbia contro Israele, magari anche con seri motivi? Se si fossero sentiti provocati da quella scritta…?
Nina aveva fatto le scale di corsa, rallentando però appena aveva sentito la porta richiudersi. Un saluto veloce a Rami, o forse Fouad, ancora non aveva imparato a distinguerli chiaramente, gli unici capaci di sorridere con cordialità del gruppo di tunisini, cinque, che avevano preso insieme in affitto da poco tempo quella che un tempo era la portineria. A volte li vedeva studiare tutti insieme dietro la vetrata, forse la parte più luminosa della casa. Passi ancora più lenti nell’uscire dall’imponente portone che di giorno restava sempre aperto. Aveva sì salutato con sicurezza divertita il padre, bacio al volo, ma ora era quasi tentata di tornare su, di cambiarsi la maglietta. Andava avanti seguendo i passi di sempre, verso scuola, ma cominciava ad aver paura. Cosa avrebbe detto, fatto se si fosse trovata circondata da tre, quattro ragazzi che le chiedevano come mai avesse quella maglietta…magari le avrebbero detto di tirarsela via subito. No, le strade erano abbastanza affollate, macchine che passavano, studenti, persone che andavano al lavoro.
PRIMO FINALE Improvvisamente dei passi al suo fianco, vicini…Dario! E stava sorridendo, orgoglioso, divertito: indossava una maglietta azzurra con la scritta, in bianco, “io sono ebreo”.
SECONDO FINALE Improvvisamente dei passi al suo fianco, vicini…Rami! o forse Fouad, sì, uno dei due più simpatici, uscito poco dopo di lei. No: c’erano tutti. E nessuno stava sorridendo. “Ciao!”, disse Nina, tranquilla, mentre la mente andava veloce, “sono tunisini, non particolarmente interessati al problema palestinese”. “Volevamo chiederti delle tua maglietta”: un bell’italiano, limpido. Nina aveva già parlato con lui, senza che si presentassero. Le aveva chiesto, con molta cortesia, della luce, se lei sapesse dove si trovavano i contatori. Nina lo aveva accompagnato all’ingresso della cantina, indicandogli il contatore dove c’era ancora scritto “custode”. “Immagino sia questo. Si possono fare delle prove”. “Devo andare a portare i documenti per l’intestazione”. Lei si era appena vagamente stupita del suo italiano impeccabile. Lui si era messo a trascrivere i numeri del contatore. L’aveva ringraziata. Tutto qui. Lei poi si era chiesta, ma era stato solo un pensiero lieve, subito evaporato, se non fosse stata troppo rigida. Avrebbe dovuto chiedergli se avevano bisogno d’altro? Spiegargli che lei era nata in quella casa, che contassero su di lei?
“Perché hai quella maglietta? Sei ebrea?”. Nina si guardò intorno: nessuno faceva caso a loro. Potevano sembrare compagni di classe. “Ha importanza?” “Sì” “Perché?”. Discutere: poteva andare bene. “Noi vogliamo sapere se sei veramente ebrea”. “Credo non abbia importanza”. Non era davvero spaventata, ma capiva che quella non era una semplice disputa dialettica. “Devo andare a scuola”, “Anche noi, all’università. Un po’ di strada insieme”. Non era una domanda. E in effetti il percorso, relativamente breve, aveva realmente un tratto comune. “Proprio non vuoi dircelo?”. Parlava sempre solo lui, quello del contatore. Nina non rispose. Ancora qualche passo, poi, improvvisamente, come se si fossero messi d’accordo in quale punto esattamente cominciare a tornare indietro, tutti salutarono, in modi diversi, ciao, a presto, ci vediamo. Nina continuò a camminare verso scuola, turbata, incerta: sapeva che da quel giorno non si sarebbe sentita più così sicura nel varcare il portone, tornare a casa.
*Valeria Ottolenghi è Responsabile Relazioni Esterne A.N.C.T. – Associazione Nazionale dei Critici di Teatro, Critico Teatrale della Gazzetta di Parma, Membro della Direzione Artistica “Destini Incrociati” e Direttore Artistico e vicepresidente di Fondazione Mario Lanfranchi.