di Odeya Bendaud
Nuova star della letteratura inglese, Scrittore Irriverente e caustico, si definisce la “Jane Austen ebrea”, con un talento tutto ebraico di ridere si sé
Britannico, comico e dalla vena ironica ma discorsiva, Howard Jacobson scrive spesso di relazioni tra uomo e donna, e di ebrei inglesi alla prese con la vita vera. Definito il “Philip Roth inglese”, lui preferisce considerarsi la “Jane Austen ebrea” ma ci tiene a precisare che non è assolutamente standard nella sua maniera di concepire e affrontare l’ebraismo.
Nonostante non frequenti la Sinagoga, né segua particolari rituali, Jacobson si sente ebreo fin nel midollo, ma soprattutto nella mente. Egli ragiona sui possibili guai che un intelletto così vivace, sviluppatosi nell’arco di cinquemila anni di storia, possa portare a chiunque ne sia dotato.
A detta sua, la tenacia e l’indole combattiva ebraica non abbandonano l’uomo moderno solo perché il contesto odierno risulta meno ostile rispetto al passato, ed è anche per questo che la sua massima espressione stilistica converge spesso nella commedia. Rimanendo fedele e sensibile alle tematiche che lo riguardano più di vicino, Jacobson affronta ogni suo romanzo come se fosse il primo mostrandosi sempre sincero e accompagnato dalla sua proverbiale ironia.
Che cosa ti ha ispirato a scrivere il tuo ultimo libro, Un amore perfetto?
Mi è sempre piaciuto scrivere di gelosia. La gelosia è il soggetto più grandioso della letteratura perché è una passione verbale – si nutre di parole, diventando più selvaggia mano a mano che si esprime. La gelosia cresce dalla paura, e io esagero per amore del linguaggio. Il tema di Un amore perfetto però, va oltre – tratta di un uomo che ammette di volere la gelosia e che ricerca tutte le possibili circostanze per far sì che essa aumenti. Questo alimenta una commedia e una tragedia al medesimo tempo; il desiderio di soddisfare quest’ossessione va fuori controllo. Non vi è più la possibilità di indietreggiare quando nasce un’ossessione del genere. Si impossessa della vittima.
Che cos’è un vero atto d’amore?
Ce ne sono di molti tipi. Ma la tipologia di cui ho appena parlato fa anch’essa parte di un vero atto d’amore nonostante la maggior parte delle persone la rinneghino. Noi “sentimentalizziamo e normalizziamo” l’amore. Non crediamo che l’amore possa esprimersi al di fuori del solito contesto familiare felice, e quando questo accade, lo identifichiamo come un amore anormale o dalla natura perversa. Ma l’amore ossessivo e morboso è anch’esso amore. A volte l’amore terrificante, quello che divora tutto, è l’amore più grande di tutti. Il mio romanzo attacca l’idea di un amore che non può essere considerato tale a meno che non sia ordinato e controllato. A volte l’amore chiede distruzione – sia di se stessi che del proprio amante – ma è sempre amore. Anzi, l’eroe del mio romanzo direbbe che l’amore che rinnega la perversione, la stravaganza, l’ossessione, l’autodistruzione e il masochismo, non è amore ma affetto. Io credo che Felix sia completamente innamorato della moglie dalla quale desidera con tanto fervore essere tradito. Il rischio che corre è quello di innamorarsi ancora di più dell’idea del tradimento fine a se stesso. Ma alla fine l’amore va sempre incontro a qualche rischio.
Felix è esagerato. È l’unica voce del romanzo. È anche deliberatamente provocatorio. Ma la sua sfida merita attenzione. Secondo i suoi parametri, se ha torto, ha torto solo fino a un certo punto. Anche la sua sfida è parte della letteratura e dell’arte. Non solo la letteratura dei più alti regimi ci mostra la gelosia come motivo primario, ma secondo Felix la maggior parte di essa viene stimolata proprio da quest’ultima – una sorta di azione dell’auto-cornificazione. Se invece vuoi sapere cosa ne pensa Felix, dovrai leggere il romanzo.
Sei un uomo religioso?
Non nel senso letterale dell’andare in Sinagoga, o dell’essere osservante o praticante. Quando si tratta di rituali sono impietosamente anti-religioso. Ma è difficile per chi scrive romanzi, non essere religioso in un altro senso, ma non mi chiedere quale sia quell’altro senso… credere nell’incertezza ad esempio, e nel sacro potere dell’arte.
Quando scrivi di ebraismo adotti un tono ironico. È il modo ebraico di far fronte alle avversità?
Io sono ironico qualsiasi sia il soggetto in questione. Sì, la mia commedia è molto ebraica nel senso che ha imparato a essere divertente per far fronte alle avversità, e per superarle. La barzelletta ebraica è una strategia masochista attraverso la quale il mondo viene sfidato tramite l’intelletto, la velocità di pensiero, attraverso la coscienza dell’umiliazione e spesso tramite gli ebrei stessi che si pongono in maniera altamente critica nei propri confronti. È proprio in questo modo che gli ebrei dimostrano di poter superare il resto del mondo quando si tratta di ridere degli ebrei stessi; “Pensi di poter essere maleducato con noi? Guarda quanto siamo più bravi noi ad esserlo!” ed è così che gli ebrei trasformano la sconfitta in vittoria. Ma è una faccenda pericolosa.
Da quando hai vinto il Man Booker Prize, ti senti diverso?
Sì. Sento finalmente, di aver smesso di cantare per una stanza vuota.
Cos’altro potresti essere, se non fossi uno scrittore?
Non potrei essere nient’altro che uno scrittore, e non ho mai voluto essere nient’altro che uno scrittore.
Cos’altro potresti essere, se non fossi ebreo?
Non potrei essere nient’altro che ebreo, e non ho mai voluto essere nient’altro che ebreo.