Jonathan Bassi,

Personaggi e Storie

Jonathan Bassi, il regista della grande operazione di Gaza a Milano fra la gente.
Rispondendo all’invito dell’Associazione Italia-Israele, molte persone hanno ascoltato il resoconto di questo israeliano di origine italiana che ha consigliato il Governo di Gerusalemme e quindi coordinato l’abbandono della striscia di Gaza.
E’ stata l’occasione di confrontarsi direttamente con una realtà che ci giunge troppo spesso solo filtrata attraverso al lente distorta dei mass media.
In fondo alla valle del Giordano, l’unico angolo del pianeta dove il deserto cede il passo al verde delle vigne e non riesce ad avanzare, un ebreo veneziano e un ebreo triestino si tengono il muso. Assieme hanno combattuto le guerre per difendere Israele, assieme hanno dato un contributo determinante alla costruzione del kibbutz Sde Eliahu dove abitano, assieme si sono appassionati di politica e di economia. Uno a capo del ministero dell’Agricoltura a Gerusalemme e di alcuni fra i gioielli industriali delle biotecnologie israeliane, l’altro alla testa del movimento dei coltivatori che praticano le metodologie biologiche.
Le cose hanno cominciato a guastarsi da quando Jonathan Bassi ha accettato l’incarico del primo ministro Ariel Sharon di coordinare la delicatissima evacuazione dei coloni dalla striscia di Gaza. Nel nome della ragion di Stato il suo ufficio ha organizzato la rimozione di ottomila persone, la distruzione di migliaia di strutture e abitazioni, persino il trasloco di un cimitero. La prima fase dell’operazione è stata portata a termine in maniera brillante. Mario Levi, solidale con i coloni, non glielo ha perdonato. E sui prati brillanti dove stanno le villette delle due famiglie è sceso il gelo.

Alcuni, signor Bassi, le rivolgono nel suo Paese un’accusa imbarazzante. Aver organizzato la deportazione di 1.700 famiglie di ebrei. E si dice che dopo le minacce degli estremisti per muovere la scorta che la accompagna bastino a malapena due vetture. Come si sente?

Queste ultime settimane – risponde, di passaggio a Milano dove ha tenuto un intervento al teatro Dal Verme – sono state molto faticose. Il disimpegno è stato un momento drammatico, ma tutto è andato bene.


Il suo incarico si è ora concluso?

No, per certi aspetti comincia adesso. I coloni che hanno dovuto abbandonare Gaza dovranno essere indennizzati e ricollocati all’interno dei confini nazionali. E anche questo è un passaggio molto delicato.


Lei ha affrontato il dramma di centinaia di famiglie che abitavano nel territorio talvolta da tre generazioni. Quale è stato il momento più drammatico?

Ho segnato il destino di ottomila persone, ho pianificato la distruzione di strutture agricole che io stesso avevo contribuito a costruire. Il disimpegno è stato un grande trauma nazionale, ma anche la dimostrazione che Israele ha la forza di prendere decisioni coraggiose, di applicarle in modo equilibrate, di non farsi intimidire dai nemici e dagli estremisti.
Sembrerà strano, ma forse il passaggio più difficile è stato il trasferimento del cimitero ebraico di Gush Katif.


Anche i morti opponevano resistenza?

Ho dovuto trattare con 48 famiglie che avevano seppellito lì i loro figli. Convincerli ad accettare una sistemazione alternativa. La legge ebraica impone il rispetto assoluto dei cadaveri e ogni cautela per evitare il rischio di eventuali profanazioni che certo non sarebbero mancate dopo il nostro ritiro. L’esercito ho mobilitato centinaia di esperti solo per compiere quest’opera pietosa.


Lei ha portato in salvo senza colpo ferire 8.000 coloni abituati a non farsi sopraffare da un milione e mezzo di arabi ostili. Quanti uomini hanno utilizzato le forze armate?

Circa 30 mila. Tutti hanno dimostrato, nel rimuovere i coloni che non volevano abbandonare le loro case, una straordinaria solidità psicologica e la capacità di non cedere mai alle provocazioni.


A Gerusalemme si dice che un primo ministro certamente molto impegnato come Ariel Sharon dedichi circa 100 ore l’anno ad ascoltare i suoi consigli. Cosa avete da dirvi?

Sharon l’ho conosciuto da giovane. Dopo tanti anni si è impadronito della maggiore qualità che un politico possa dimostrare: la pazienza. Ascoltare con calma il parere degli esperti, ponderare ogni decisione. E una volta assunta una determinazione portarla a termine, senza guardare in faccia a nessuno.


Gaza era solo il primo passo, il grande laboratorio della trasformazione che attende il Medio Oriente. Quando all’orizzonte spunterà un interlocutore palestinese credibile sarà il momento di restituire almeno parte della Cisgiordania e di favorire la creazione di uno Stato palestinese. Sarà ancora lei ad occuparsene?

C’è tempo. Prima di mettere mano alla Cisgiordania ci vorranno anni. E alla pace serviranno partner che per il momento non esistono.


Ma presto o tardi il disimpegno arriverà anche lì?

Non ne sarei tanto convinto.


Perché?

Gaza è stata abbandonata perché non rientrava negli interessi strategici israeliani. Per la Cisgiordania il discorso è molto diverso. Se la pace verrà e sarà una pace seria si farà valere piuttosto un principio diverso. In Israele vive in pace e prosperità una consistente minoranza di cittadini arabi. Se una minoranza di ebrei vorrà vivere in tutta sicurezza all’interno dello Stato che i palestinesi dicono di voler fondare questo dovrà essere possibile.


Il successo in un’operazione tanto difficile e delicata come il disimpegno ha costituito per lei la maggiore soddisfazione?

Vengo da una famiglia veneziana. Mia moglie da una famiglia ferrarese. I nostri genitori sono sfuggiti per caso alla distruzione della guerra. La maggior parte dei loro congiunti no. Mi piace lavorare, essere utile al mio Paese. Ma la mia soddisfazione e la nostra risposta al destino sono i sei figli che abbiamo avuto, i nipoti e i pronipoti.


E quante persone vi tocca mettere a tavola quando arrivano i nipotini?

Almeno una sessantina.

Guido Vitale

Ecco la cronaca della serata.

Il pubblico presente al teatro Dal Verme di Milano per ascoltare Jonathan Bassi ha risposto in maniera entusiastica all’invito dell’Associazione Italia-Israele che aveva organizzato la serata.

Presentava il giornalista Piero Ostellino, presidente dell’Associazione, che ha ribadito che il disimpegno da Gaza di cui avrebbe parlato Bassi ha portato a un cambiamento nell’immagine di Israele sui media. Abbiamo ascoltato poi le parole di apprezzamento per l’operato di Israele da parte di Livio Caputo, rappresentante del Comune di Milano che aveva concesso la sala.

Poi finalmente ha parlato Jonathan Bassi, offrendo al pubblico molti retroscena e particolari dell’operazione.

In un italiano appena intervallato da qualche incertezza, ma comprensibilissimo – mille volte meglio di una traduzione simultanea – aiutato talvolta da volontari, fra cui anche Rav Arbib, che gli suggerivano la parola italiana, ha raccontato quell’esperienza, umana prima di tutto, e che ha trasformato la sua vita e quella della sua famiglia, di trovarsi paracadutato (magari con una jeep) fra le altissime sfere del governo e ricevere questo incarico pazzesco: prima gli erano stati concessi quattro mesi, poi due: tutta l’operazione si è svolta in due giorni.

Ha parlato degli aspetti tecnici dell’operazione che “non è costata neanche una goccia di sangue”, dei piccoli e grandi drammi, dei costi, dell’ostilità dei residenti, ha detto di come adesso debba girare scortato per via dei nemici che si è fatto, ha raccontato particolari inediti e interessantissimi e ci ha mostrato la sua soddisfazione. E la sua stanchezza.

Quando rispondendo a una domanda ha detto: “Adesso Israele non ha la forza per affrontare un nuovo sgombero” (dalla Cisgiordania: “Ma cos’è la Cisgiordania?” ha chiesto. E Paganoni che lo assisteva gli ha spiegato che noi chiamiamo così quella a cui lui si riferiva come Yudea Veshomron), sembrava che parlasse di se stesso.

Una grande umanità insomma, la sua identità religiosa, forse il suo pessimismo.

Il pubblico che l’ha applaudito molto sinceramente forse non ha capito per intero quello che stava dietro a quell’esperienza – tecnica, militare, psicologica: dopo aver visto sui giornali israeliani del mese di agosto le immagini molto commoventi di quelle due fazioni, i militari da una parte, le donne, i rabbini, i bambini dall’altra, che forse si volevano abbracciare ma che in quel momento erano su due sponde opposte, non c’era bisogno di altre immagini, di altre icone: le parole di Bassi completavano quello che la cronaca ci aveva già mostrato.

A Bassi sono state rivolte domande tecniche e politiche, tutto su Israele si voleva sapere. Ma lui non ha fatto previsioni, non ha fatto analisi. Ha raccontato di questo suo lavoro che comprensibilmente ha fatto molto bene.

Lo abbiamo ascoltato con gratitudine. Per il pubblico non ebraico è stata forse la spiegazione di un episodio – chiamiamolo storico – che ha dato un’immagine positiva di Israele. Per noi più che di un passo storico si è trattato della dimostrazione della forza, dell’umanità, della comprensione dei problemi necessarie alla realizzazione di un’impresa, epica e immane proprio per tutti questi risvolti.