Il rabbino capo di Francoforte Chaim Soussan

«La nostra canzone non dovrebbe intitolarsi “Losing my religion”, bensì “Living my religion”». Parla il rabbino capo di Francoforte

Personaggi e Storie

di Marina Gersony
Il numero degli “ebrei senza religione” è in aumento. Come possiamo appassionarli di nuovo alla nostra fede? Questo è il titolo di un interessante articolo, apparso  lo scorso 14 settembre sulla Jüdische Allgemeine a firma di Julian Chaim Soussan, rabbino ortodosso della Comunità ebraica di Francoforte sul Meno; un articolo che fa riflettere e di cui proponiamo una traduzione sintetica di seguito.

Scrive il rabbino: Quando ho letto giorni fa un recente sondaggio del PEW Research Center dagli Stati Uniti su come le persone vivono la loro fede – sempre che ne abbiano una -, mi è venuto in mente il brano Losing my religion della band americana R.E.M.

Sono state selezionate e intervistate 4700 persone, classificate poi in categorie di cui non avevo mai sentito parlare prima: conoscete il temine relaxed religious? Io mi definirei certamente rilassato ma pur sempre religioso. Ma penso che sto andando fuori tema.

Quello che mi preoccupa davvero è il risultato scioccante dello studio: il 45% dei Jewish Americans non può o non vuole identificarsi con la cosiddetta religione organizzata. Sono “solidamente laici” (28 per cento) o “resistenti alla religione” (17 per cento) oppure non credono a nessun potere superiore. Al massimo credono in qualche potere spirituale tipo New Age e cose simili. Molti credono che i gruppi religiosi abbiano troppa influenza sulla politica e che danneggino la società piuttosto che esserle di aiuto.

I numeri sono nuovi, ma la realtà non si è evoluta. Già nel 2013 il Pew Research Center ha pubblicato un “ritratto” dell’America ebraica. All’epoca, il 22 per cento degli ebrei intervistati dichiarò di non avere religione. Una buona parte (62 per cento) ha affermato che per loro essere ebrei ha più a che fare con l’origine o la cultura, non con la religione. Due terzi degli “ebrei senza religione” non volevano impartire ai loro figli nessuna educazione ebraica.

Il secolarismo ha una lunga tradizione nella vita ebraica americana. Una tendenza che si osserva nelle società occidentali in generale. Molti pensano che la religione e la modernità non vadano d’accordo. Gli scienziati parlano di una “teoria della secolarizzazione” che sembra inevitabile nel corso dell’evoluzione.

Questa tendenza la osserva anche l’ex capo rabbino britannico Jonathan Sacks, il quale sottolinea che ogni compito che prima svolgeva normalmente la religione, oggi può essere svolto anche altrove: nel sociale, in ambito educativo e nel tempo libero. Sono sempre più numerose le persone che cercano la redenzione nei centri commerciali piuttosto che nelle case di preghiera.

Eppure, sottolinea Sacks, abbiamo bisogno della religione, ieri come oggi. Perché soltanto la religione può dare le risposte alle domande che ogni persona autoriflessiva dovrebbe porsi: chi sono io? Perché sono qui? Come dovrei vivere? L’homo sapiens, secondo Sacks, non è solo un essere pensante, ma è anche un essere che cerca un significato. E non può essere la scienza o la tecnologia a farlo, neppure lo stato democratico o l’“economia globale”, bensì soltanto la religione.

Ad esempio, la scienza può solo spiegare come qualcosa accade, la religione invece spiega perché accade. Cosa facciamo dunque proprio adesso, nel periodo delle feste, consapevoli che gli ebrei stanno perdendo la loro religione? SOS! Un’iniziativa negli Stati Uniti traduce la chiamata di emergenza SOS con Share One Shabbat e invita gli ospiti ebrei a un pasto shabbat per avvicinarli alla bellezza della nostra tradizione. E il progetto Shabbat Olami porta quest’idea in tutto il mondo.

Una bella iniziativa. Ricordiamolo. Apriamo le nostre porte, anche dopo le vacanze. Accogliamo estranei nelle sinagoghe, diamo loro dei kippot, aiutiamoli con il siddur e con le preghiere.

Solo un gesto? No, dice per esempio Jane Eisner dell’American Forward, la quale precisa come il 94 per cento degli intervistati abbia ammesso di essere  “molto o almeno un po’ orgoglioso” di essere ebreo. Gli “ebrei senza religione” sono e rimangono comunque ebrei. La maggior parte di loro non appartiene a nessun’altra comunità religiosa. Almeno questo vale per la maggioranza. Che i bambini rinuncino all’orientamento religioso e all’attaccamento ai loro genitori non è una novità. Questa esperienza l’avevano già dovuta fare anche i nostri antenati biblici, Abramo e Isacco.

Tuttavia dobbiamo fare tutto ciò che è in nostro potere per presentare delle proposte adeguate anche alle nuove generazioni. Soprattutto per loro, la cui tendenza verso l’individualismo è evidente. Ma l’ebraismo non può essere vissuto nell’individualità. Questo lo notiamo al più tardi quando recitiamo il Kaddish. Abbiamo bisogno di un minyan.

In questo senso la nostra fede rappresenta anche la salvezza dalla solitudine, che diventa un problema per sempre più persone. Perché la fede, secondo Sacks, santifica le relazioni, costruisce la comunità, sposta lo sguardo verso l’esterno, lo sposta da noi stessi verso gli altri.

Le persone sono alla ricerca di un significato nella vita e aspirano alla fratellanza. Dovremmo fare tutto il possibile per offrire loro qualcosa in questo senso. Deve essere un’offerta attraente. Non nel senso di un allontanamento, bensì di un rafforzamento della tradizione. E così, nel nuovo anno 5779, la nostra canzone non dovrebbe intitolarsi Losing my religion, ma piuttosto Living my religion.