L’uomo che sopravvisse all’inferno di Gaza: l’incredibile racconto di Louis Har

Personaggi e Storie

di Redazione
La notizia della liberazione lo scorso 12 febbraio di Louis Har, il contabile argentino-israeliano di 71 anni, ha fatto il giro del mondo dopo un’odissea durata 129 giorni, paragonabile a un vero e proprio film dell’orrore. Finalmente libero dopo l’audace missione dell’IDF, l’uomo ha potuto riabbracciare la sua famiglia ponendo fine a una lunga detenzione da incubo. In un’intervista esclusiva per il  Daily Mail, Har ha condiviso gli angoscianti dettagli del suo calvario mentre era prigioniero dei terroristi a Gaza. Si tratta di uno dei resoconti più dettagliati finora della vita degli ostaggi nella Striscia. «Ci hanno trattati come se fossimo cani, non come esseri umani, ha dichiarato descrivendo il terrore e la disperazione che hanno segnato ogni giorno della sua prigionia.

(Nella foto, Louis Har, secondo da sinistra, con la compagna Clara, Fernando Marman e la moglie ringraziano l’esercito che li ha slavati (screenshot di video di Channel 12)

Har ha narrato di essere stato svegliato da un’esplosione violenta alle due del mattino, che ha squarciato la sua cella, catapultandolo in un mondo di caos e terrore. «Ero convinto che quella fosse la fine – ha raccontato, ripensando all’orrore che lo ha pervaso in quei momenti –. Poi, all’improvviso, ho sentito qualcuno che mi chiamava in ebraico».

Si trattava dell’unità d’élite dell’IDF, l’esercito israeliano, arrivata per portare Har e il suo compagno di prigionia, Fernando Marman, a casa. «Quel momento è stato come un raggio di speranza in mezzo al buio più profondo», ha rammentato, il suo viso ancora segnato dalle sofferenze.

Il ritorno in Israele è stato un turbine di emozioni contrastanti: la gioia travolgente di riabbracciare la famiglia, ma anche il peso opprimente del terrore vissuto. «Abbiamo versato lacrime di gioia e di dolore», ha confessato, stringendo Clara, la sua compagna, e Fernando, il fratello di lei, a loro volta presi in ostaggio insieme a Gabriela, la sorella di Clara e la figlia Mia. Con loro c’era anche Bella, la fedele cagnolina shitsu sopravvissuta, nonché parte integrante di quel momento commovente. Har sorride ora mentre racconta come Bella sia riuscita a sopravvivere inosservata: «Lei non si rende conto di essere un cane, si comporta come una bambola. Non l’abbiamo mai sentita lamentarsi. È stata più eroica di noi».

 

La famiglia si trovava a casa nel Kibbutz Nir Yitzhak quando uomini armati si sono riversati oltre il confine e hanno preso d’assalto la loro comunità vicino a Gaza all’alba del 7 ottobre. Mentre i terroristi hanno sfondato le finestre, i cinque parenti si sono precipitati al rifugio antiaereo con Bella, ma gli uomini li hanno inseguiti sparando nella stanza.

«Uno dei proiettili è passato molto vicino a Fernando – ha descritto Har –. Abbiamo urlato: “Non sparate, non sparate!” Poi ci hanno portati fuori dalla stanza».

In una scena apocalittica, i terroristi, con «occhi enormi e spaventosi», hanno raso al suolo il Kibbutz costringendo i cinque sopravvissuti sotto la minaccia di una pistola a salire su un camioncino bianco. Mentre il veicolo accelerava in modo irregolare verso il confine, gli attentatori hanno sparato in aria gridando «Allah Akbar». Hanno superato ondate di giovani armati che irrompevano in Israele, saccheggiando tutto ciò che incontravano, mentre i corpi giacevano sparsi lungo la strada.

«Alla fine – ha riferito Har – sono arrivati a un piccolo edificio a Gaza. Hanno aperto un piccolo cancello e ci hanno portato in un tunnel con i terroristi armati di pistole. Erano dietro, davanti e di fianco a noi». Per tre ore i cinque sono stati spinti a piedi nudi attraverso la rete sotto la minaccia delle armi, a volte costretti a strisciare sulle mani e sulle ginocchia. I terroristi avevano piccoli appunti per orientarsi nel labirinto sotterraneo.

«Era sempre buio – ha detto Har –. L’unica luce proveniva dal telefono. Non c’era aria. Sembrava che non saremmo mai usciti da lì».

I ricordi dell’inferno di Gaza continuano a tormentare Har. «Le notti erano le peggiori – ha confessato rivelando l’angoscia vissuta –. Sognavo di abbracciare i miei nipoti, di sentire il calore delle loro braccia attorno a me. Era come se fossi lì con loro, e poi mi svegliavo, ancora intrappolato in quel buio implacabile».

Durante la prigionia, Har ha descritto il comportamento dei terroristi come brutale e disumano. «Ci trattavano come se fossimo meno di animali. Ci minacciavano, ci umiliavano, ci tenevano nel terrore costante».

Gli ostaggi, tra uno spostamento e l’altro, sono rimasti per 50 giorni in una stanza senza finestre sotto lo sguardo crudele di guardie armate che li schernivano. Così hanno inventato dei soprannomi in spagnolo per ciascuno dei loro rapitori parlando il meno possibile in ebraico in modo da non essere compresi.

Un terrorista si interessò a Mia, ridendo di lei sostenendo che era «single e di volerla sposare». Quando Har lo ha intimato a fermarsi, la guardia ha iniziato a ululare e a prenderlo in giro sogghignando: «Wow, c’è un lupo qui».  Più tardi è tornato con un grosso coltello da commando e ha iniziato a giocherellarci per spaventarli.

Har ricorda di come sono stati costretti a dormire su materassi sporchi e sottilissimi buttati sul pavimento, sopravvivendo con avanzi di pane pita mentre immaginavano di banchettare con bistecche argentine e condividere storie di vita per passare le giornate.

«C’era una guerra psicologica costante – ha raccontato –. Ci ​​hanno intimato a non uscire all’esterno, che ci avrebbero picchiato a morte». Non solo: i carnefici si si sono premurati di informare puntualmente gli ostaggi di ogni fallimento dell’IDF o di ogni volta che i soldati venivano uccisi: «Ci dicevano che non avevamo nessun posto dove tornare, che il Kibbutz Nir Yitzhak non esisteva più. Continuavano inoltre a dirci di non parlare ad alta voce perché i droni, se ci avessero ascoltato, avrebbero passato l’informazione a Netanyahu e Netanyahu avrebbe mandato aerei a bombardarci perché non vuole nessun accordo, vuole ucciderci. Continuavano a ripetercelo, ogni giorno. Alla fine ti entra in testa».

Dopo la liberazione, Har sta affrontando una graduale reintegrazione nella vita quotidiana dopo la sua drammatica esperienza, facendo riaffiorare quanti dei suoi amici del suo Kibbutz sono stati uccisi.

Non gli è ancora permesso guardare la televisione data la fragilità del suo stato d’animo. Tuttavia, nonostante la durissima prova a cui è stato sottoposto, sta ancora lottando per il ritorno dei 134 ostaggi rimasti a Gaza. «È così terribile, così difficile per loro vivere così», dice l’uomo che sa più di chiunque altro quello che gli ostaggi hanno patito e stanno patendo. «Dobbiamo riportare indietro tutte le persone, tutti», afferma con voce ferma –. Continuerò a lottare finché non saranno liberi».

La sua storia, un misto di terrore, commozione e speranza, rimarrà impressa nelle menti e nei cuori di coloro che ascoltano, un simbolo vivente della forza umana di fronte all’avversità.

 

VIDEO La CNN parla con il genero dell’ostaggio israeliano salvato Louis Har
https://edition.cnn.com/videos/world/2024/02/12/exp-israel-hostage-rescue-rafah-nic-robertson-live-021204aseg1-cnni-world.cnn

 

VIDEO Luis Har, salvato dall’IDF un mese fa, racconta in lacrime di quando è venuto a sapere che uno dei suoi salvatori è morto in battaglia solo due settimane dopo averlo salvato. https://www.facebook.com/watch/?v=277025825440824