di Giorgio Secchi
L’8 marzo al Teatro Franco Parenti, l’assessorato alla Cultura della Comunità invita a un incontro con Mario Pirani.
“Ai tempi della mia infanzia i taxi a Roma erano verde ramarro”. Così inizia, in un’atmosfera da primo Novecento, l’autobiografia di Mario Pirani, Poteva andare peggio, (Mondadori, 430 pp., 20 euro), 85 anni, autentico mito vivente del giornalismo italiano, editorialista de La Repubblica e saggista. Un libro su “mezzo secolo di ragionevoli illusioni”, come recita il sottotitolo: prima un’infanzia felice in una famiglia ebraica, borghese e liberale, vissuta al seguito del padre dirigente della Ciga Hotels e interrotta dalle Leggi razziali del 1938.
Poi il fascismo, la guerra, il confino della famiglia in Abruzzo, la scoperta nel dopoguerra della militanza politica come “rivoluzionario di professione” nelle file del Pci; e ancora, l’addio al Partito per le divergenze col gruppo dirigente, l’approdo all’Eni di Enrico Mattei negli Anni Sessanta con un incarico in Africa del Nord, “un compito a metà tra l’ambasciatore mascherato e l’agente segreto, nella cornice dei fondali esotici del film Casablanca”. Infine gli anni del giornalismo liberale e progressista, al quotidiano Il Giorno, a La Repubblica, alla direzione del settimanale L’Europeo (e l’incontro con la realtà della P2), a La Stampa fino al ritorno a casa, ovvero a La Repubblica, quotidiano di cui Mario Pirani era stato tra i fondatori e, ancor oggi, una delle firme più prestigiose. Una vita da protagonista di questo secolo breve, il XX°, vissuta attraversando una delle grandi stagioni del giornalismo di casa nostra. Con un libro a tratti poetico a tratti stupefacente per la ricchezza di fatti, incontri, aneddoti, Pirani ci narra l’avventura appassionante di 60 anni di storia d’Italia, quasi fosse un eroe cinematografico (non a caso Pirani adora il cinema, un amore nato a sette anni nei saloni dell’Hotel Excelsior in occasione della Prima edizione della Mostra di Venezia). Sfilano i ricordi di incontri con le tante personalità della storia e della cultura del Novecento: Palmiro Togliatti, lo stesso Hitler, Enrico Berlinguer, Giorgio Amendola, Luigi Longo, Sibilla Aleramo, Luigi Squarzina, Rossella Falk, Enrico Mattei, Giorgio Ruffolo, Altiero Spinelli, Che Guevara, Gianni Agnelli, Eugenio Cefis, Eugenio Scalfari. Insomma, la vita di un giornalista che, a modo suo, è stato, egli stesso, un eroe del nostro tempo.
Leggendo le pagine di Poteva andare peggio ci si imbatte quasi subito nell’episodio in cui Pirani racconta di essersi nascosto dentro un armadio, durante un rastrellamento tedesco. “Quel giorno avrei potuto finire ad Auschwitz, ormai era in gioco la vita di ogni ebreo e di chiunque avesse una traccia di sangue ebraico. Ma sono state molte altre ancora le volte in cui sarebbe potuto andare peggio: se, ad esempio, la linea politica di Palmiro Togliatti non avesse prevalso sulle posizioni estremiste all’interno del Pci, l’Italia avrebbe fatto la fine delle democrazie popolari dell’Europa dell’est o sarebbe finita come in Grecia. O ancora, Poteva andare peggio nel senso che sarei potuto finire a fare il deputato socialista dell’Eni, o accettare l’offerta di andare a New York nel ruolo di corrispondente. Invece no: scegliendo di restare qui partecipai all’avventura della fondazione del quotidiano La Repubblica. Poteva andare peggio anche nel periodo in cui diressi il newsmagazine L’Europeo: avrei potuto, ad esempio, trovarmi invischiato dentro le trame oscure della P2. Non a caso quindi ho scelto, per questo libro, un titolo che fosse insieme personale e politico, un titolo che rappresentasse un clima, un contesto in cui oggi si possa riconoscere una generazione di italiani, quella di chi è stato comunista. Certo, se avessi proseguito la narrazione fino ai giorni nostri non avrei potuto scegliere un titolo così, perché la situazione che stiamo vivendo oggi è a mio avviso peggiore di quella dei tempi della Prima Repubblica. Ma questo è materia di cronaca politica, io volevo raccontare una storia, la mia”.
Chi è abituato a leggere i suoi editoriali o la rubrica Linea di confine su La Repubblica, resterà colpito dalla prosa del libro, così evocativa e intensa.
Mi sono sforzato di non avere una scrittura aulica. Ma curiosamente non l’ho mai riletto per intero, solo capitolo per capitolo, che poi mandavo all’editore. Mi ero ripromesso di fare una revisione che, alla fine, non c’è stata.
Le sue pagine sembrano una sorta di “memorie di un ebreo laico”. Ma, a parte tre capitoli, negli altri lei non parla mai della sua identità ebraica.
L’elemento ebraico è sempre stato presente nella nostra famiglia, anche se papà era ateo e mamma cattolica. Avevano scelto di darci un’educazione laica, lasciando che fossimo noi in età adulta a scegliere. La cosa buffa è che mio padre si è sempre vantato di essere discendente dei Coen di Pirano, e del fatto che il nonno benedicesse i fedeli al tempio. Di fatto mi sentivo ebreo, nessuno mi aveva insegnato nulla ma in prima elementare avevo rivendicato pubblicamente la mia identità. Nell’adolescenza sentivo i racconti della mia famiglia, ebrea e veneta, in cui il cognome Pirani Coen ci dava una sorta di privilegio, il far parte di un’aristocrazia, nonostante ciò non fosse giustificato sul piano liturgico. Nello stesso tempo invidiavo i miei compagni di scuola, gli Ottolenghi, i Della Seta, che osservavano e avevano le feste ebraiche. Ma il 15 luglio 1938 furono promulgate le Leggi Razziali. All’epoca eravamo in vacanza, a Focette. Mio padre volle che il mio 13° compleanno, che cadeva pochi giorni dopo, venisse festeggiato in modo più fastoso e solenne del solito.
Allude al suo bar-mitzvah perduto, cui lei accenna con nostalgia nella dedica del libro?
Per mio padre quella festa doveva essere più o meno consapevolmente una specie di bar-mitzvah, tanto che tenne a spiegarmi con una certa enfasi che “il 13° è un compleanno molto importante per gli ebrei, da questo momento si entra nella maggiore età”. Poi venne il 1938, quel bar-mitzvah virtuale fu seguito da un battesimo finto che doveva servire a salvarci dalle persecuzioni; anche il cognome Coen fu cancellato dal registro scolastico. Senza contare poi il mio disagio quando, nel tornare a scuola, scoprii che alcuni non erano più lì: la professoressa Della Seta e il mio compagno Ottolenghi, entrambi costretti ad andarsene .
La sua conversione all’ebraismo è avvenuta però molti anni dopo la Liberazione e dopo il suo ritorno a Roma dall’Abruzzo, dove la sua famiglia era stata mandata al confino.
Quando sono tornato ho deciso di impegnarmi in politica, entrai nel Partito Comunista e questa esperienza ha assorbito per più di un decennio le mie energie, intellettuali e fisiche. Poi c’è stata la stagione all’Eni. Ma la nostalgia di un vero bar-mitzvah non mi ha mai lasciato, volevo definire la mia identità, una questione che mi tormentava fin da bambino. Di qui l’incontro con Rav Elio Toaff, il mio percorso verso la conversione. Non ha voluto che io rinunciassi al nome Coen, sosteneva che la funzione sacerdotale affidata nell’ebraismo ai kohanim era un mistero in cui non era opportuno mettere mano. A questo proposito mi disse, “tu hai fatto per gli ebrei molto più di altri che hanno studiato tutti i giorni”.
Che cosa intendeva dire?
Si riferiva a quando ero intervenuto, da dirigente dell’Eni in Tunisia, a favore degli ebrei che nel giugno 1967 cercavano di scappare dalla Libia, permettendo loro di trovare rifugio sulle navi, le petroliere della compagnia. “Il giovane medico che ti farà la milà è tripolino”, aggiunse Toaff, “potrebbe essere uno di quelli che hai contribuito a salvare”.
Nel libro non compare mai nessun accenno ad Israele.
Di Israele mi sono occupato in un saggio del 2004, È scoppiata la terza guerra mondiale?. Per la Treccani ho scritto nel 2001 la voce sulla Shoah. Ma nella mia attività al quotidiano La Repubblica non ho mai voluto identificarmi con la figura dell’ebreo che difende Israele, quasi che i miei colleghi possano scrivere anche le cose più aspre poi arriva l’ebreo del giornale che salva l’anima a tutti. Quando l’ho creduto opportuno, sono intervenuto. Circa la mia posizione su Israele e il Medio Oriente continuo a ritenere valido quanto scrissi nel 2004: assieme agli strumenti dell’analisi storica, occorre inforcare occhiali biblici per cercare la soluzione alla convivenza tra le tribù di Isacco, gli ebrei, e quella di Ismaele, gli arabi.
L’8 marzo al Teatro Franco Parenti, l’assessorato alla Cultura della Comunità invita a un incontro con Mario Pirani.