di Fiona Diwan
Il ritorno delle tribù e l’idea di una confederazione tra Israele e i Palestinesi. La crisi economica e le nuove diseguaglianze sociali. L’ebraico e lo yiddish, la Diaspora e la figura di Zeev Jabotinskij. Analista geopolitico, saggista, Maurizio Molinari, direttore de La Stampa, parla del futuro, della fusione con La Repubblica voluta dalla Fiat e dei suoi due nuovi libri.
Un aplomb anglosassone, studi di scienze politiche e affari internazionali, giornalista ed ex corrispondente da New York, da Gerusalemme e da Ramallah per il quotidiano La Stampa, una fama di stakanovista con poderosa capacità di lavoro. Il segreto dell’operosità di Maurizio Molinari, direttore del quotidiano torinese da fine 2015, nato a Roma nel 1964, sta in una giornata di 16 ore e nella difficile arte di saper delegare e scegliersi i collaboratori.
Non potrebbe essere altrimenti: da 15 anni pubblica un libro all’anno (ad eccezione del 2017, in cui, in sei mesi, ne ha pubblicati due), non rinuncia alla visibilità mediatica e va ovunque si renda necessaria la sua presenza, senza contare il lungo week end al mese che riesce a trascorrere a Gerusalemme, insieme alla moglie e ai 4 figli che abitano lì. Oggi Molinari è alla prese con una riorganizzazione imponente del quotidiano che dirige, in attesa che, a settembre, la fusione con La Repubblica voluta dalla Fiat diventi operativa. Inoltre, ha appena dato alle stampe il suo ultimo saggio Il ritorno delle tribù, la sfida dei nuovi clan all’ordine mondiale, Rizzoli, mentre nel mese di febbraio era uscito un altro avvincente saggio, Duello nel ghetto, ispirato alla figura di Moretto, nome di battaglia di Pacifico di Consiglio, ebreo romano e pugile dilettante che durante l’occupazione nazista resta nell’Urbe per dare la caccia ai suoi persecutori, ingaggiando una specie di duello con Luigi Roselli, informatore e collaboratore dei nazisti. «Duello nel ghetto è la storia di un ebreo di piazza a Roma che non molla mai, è un omaggio alla romanità ebraica, a generazioni di ebrei vessati che tuttavia non abdicarono mai alla lotta. Battersi nelle situazioni di grande difficoltà: è una qualità che gli ebrei di Roma hanno da sempre», spiega Molinari.
Il secondo saggio, uscito un mese fa, si focalizza invece sul concetto di tribù e sul ritorno di un modello sociale che credevamo estinto. Un tribalismo che risorge nel mondo arabo-musulmano come conseguenza del collasso degli Stati nazionali per effetto dell’ideologia jihadista, del Califfato, di rivolte di matrice etnico-religiosa. Allo stesso modo, in Occidente, rispunta un modello tribale che invece ha una matrice economica, esito del malcontento derivante da impoverimento e diseguaglianze, dal collasso della middle class che ha prodotto la Brexit e consentito a Donald Trump di arrivare alla Casa Bianca. In una fase di brusca accelerazione della Storia che coinvolge tutti.
L’idea di tribù come chiave di lettura dei conflitti di oggi. Come nasce?
Nasce da tre incontri differenti. Il primo con un soldato egiziano in licenza, al Cairo, che mi raccontò le difficoltà che l’esercito di Al Sisi aveva nel combattere l’Isis e nel controllare il deserto del Sinai; difficoltà dovute al potere delle tribù beduine che presidiavano l’area e al loro opportunismo mercenario, la qual cosa rendeva tutto molto complicato perché, a seconda di chi pagava di più, un giorno le tribù aiutavano i jihadisti e il giorno dopo cambiavano idea. Il secondo incontro è stato quello con il Presidente israeliano Reuven Rivlin che mi disse che la soluzione tra israeliani e palestinesi sarebbe stata quella di una confederazione. In Medioriente gli accordi tra tribù si fanno con le confederazioni, mi disse. Tutti vivono nella stessa stanza ma ciascuno conserva la propria dignità; una soluzione, questa, tipicamente araba. Il terzo incontro avvenne a Irbil, nel Kurdistan, con il ministro degli esteri curdo. “Noi saremo indipendenti come Kurdistan; ma la convivenza con sciiti e sunniti è impossibile perché sono in guerra da 1500 anni e continueranno a combattersi”, mi spiegò. Sarà quindi la fine dell’Irak, chiesi io? No, rispose, l’Irak inteso come stato finirà ma dovrà rinascere come confederazione di tribù. Insomma, tre personaggi completamente diversi, un soldato, un presidente, un ministro, mi dicevano la stessa cosa. Ossia che stanno rinascendo le identità tribali: che si parli di tribù che si combattono o che cerchino nuove forme di convivenza, il focus non è più sugli stati nazionali ma sulle identità di clan. Certo, alcuni Paesi del Medioriente sono mono-tribali come accade in Kuwait, in Qatar, negli Emirati, in Israele: laggiù, la tribù è lo stato. Per altri invece non è così, la lotta intestina tra diverse e opposte tribù genera l’instabilità, e più clan ci sono più l’instabilità è alta, vedi la Siria, l’Irak, la Libia… Non a caso, nel 1951, in Libia, Re Idris riunì a Tripoli le tribù e le fece sedere in Assemblea. E anche in Afghanistan accadde la stessa cosa, tutte le tribù intorno a un tavolo i pasthtun, gli hazara, i tagiki, gli aimak, i baluchi…
E in Occidente? C’è un parallelo?
Sì. Se da un lato assistiamo alla rivalità tra clan, a identità in conflitto da secoli, dall’altro, in Occidente, ecco la nascita di nuove tribù sociali generate dalla crisi, dall’impoverimento, dal disagio sociale, tribù il cui elemento di aggregazione è lo scontento economico. È quel ceto medio che elegge Trump, che vota per la Brexit o per i partiti populisti in Europa Centrale e orientale, e che in Italia vota per realtà locali, che non crede più nei grandi partiti nazionali. La globalizzazione ha corso troppo, creando buchi, ferite economiche e rivendicazioni. Il tema oggi è garantire un futuro ai propri figli, una serena vecchiaia e una pensione, per se stessi.
Ma che cosa c’entra tutto questo con il mondo islamico?
Il fatto è che per entrambi l’obiettivo è identico, ossia distruggere lo stato nazionale con le sue istituzioni, i suoi vecchi partiti, la sua democrazia rappresentativa: tutto ciò diventa il nemico perché ti ha ridotto nell’attuale stato di difficoltà. Non a caso, oggi tutti sembrano cercare dei leader forti e carismatici (vedi il successo di Trump, Macron e Putin) e gli importa sempre meno della rappresentanza, del Parlamento. Nethanyahu ha successo in Israele per lo stesso motivo. L’anello debole è l’Europa; quello che oggi servirebbe è una nuova dottrina del Welfare. In Italia abbiamo il 27 per cento delle famiglie che vive in stato di povertà, il 40 per cento dei ragazzi non ha lavoro e le iscrizioni all’Università sono calate anch’esse del 40 per cento. È in atto la demolizione del ceto medio, ecco perché serve un nuovo Welfare. Il punto è una nuova definizione di povertà, con parametri diversi da quelli di 25 anni fa. Dire che chi percepisce uno stipendio non è povero è sbagliato: sentirsi disagiati oggi vuol dire che non puoi permetterti di pagare l’università ai tuoi figli, che non sai se avrai garantita una vecchiaia dignitosa, che non sai se potrai farti un paio di settimane di vacanza l’anno. Serve una nuova dottrina economica che risponda al disagio e torni a trasmettere senso di protezione agli individui. Occorre una ridefinizione del PIL, che oggi viene fotografato in maniera obsoleta e una riformulazione del concetto di povertà. La globalizzazione ha fatto esplodere le diseguaglianze, – inequalities-, una parola perfetta per capire ciò che sta succedendo oggi. In Usa, i Democratici stanno riflettendo sulla loro sconfitta, anche in vista delle elezioni del 2020: per primi sono arrivati a capirlo, hanno colto il nocciolo del problema, ossia le due fondamentali inequalities del tessuto sociale: la prima viene dalle revenues (ovvero, un gap enorme tra le entrate della gente, a chi troppo, a chi nulla); la seconda è il training, ossia una fascia di persone tra i 40 e i 60 anni che espulsa dal mercato del lavoro, si vede preclusa qualsiasi forma di riassorbimento. Ed è questa la genesi delle inequalities. Si tratta di milioni di persone che andrebbero re-trained, formate di nuovo. Il ceto medio si indebolisce perché i padri e le madri di famiglia che hanno 50 anni fanno lavori che non servono più, perdono il posto e non hanno la capacità di rientrare in un mercato che li espelle. E all’improvviso, loro che a 50 anni dovrebbero essere al top, subiscono un licenziamento e crollano, con migliaia di ragazzi che vedono i loro padri cadere in depressione. Poi ci chiediamo perché c’è Trump o perché ha vinto la Brexit? È il segnale di una rivolta anti sistema in Paesi dove, non a caso, la globalizzazione si è spinta più lontano. I primi leader che saranno in grado di fornire risposte a questi problemi avranno davanti campo libero. Viceversa, avremo il populismo.
Da quando sei direttore, La Stampa dedica uno spazio maggiore alla politica estera e alle notizie dal Medioriente. Come gestire, in un mondo giornalistico fortemente politicizzato e ideologizzato, il ruolo di direttore, le tue origini ebraiche, l’essere stato corrispondente dal Medioriente?
Fondamentale è stata la mia l’esperienza a New York, dove ho vissuto per 14 anni. New York è un modello culturale dove i non ebrei consumano prodotti ebraici in continuazione. Il segreto che rende possibile quest’interazione unica è nel modo in cui gli ebrei interagiscono con gli altri newyorkesi: involving them all the time, coinvolgendoli, con la condivisone. È il modello della multiculturalità di New York, e gli ebrei sanno condividere i propri contenuti senza imporli. In questo sta l’eccezionalità di New York e lo si trova nei giornali di New York, nella vita intellettuale: qualsiasi prodotto culturale che esce da New York è anche, ma non solo, un prodotto ebraico. Questa è la formula che applico al giornale: i contenuti devono essere condivisi e tutti ne possono essere portatori, la forza sta nelle storie, nel racconto. Se ci sono la notizia e i contenuti, non conta che colore o bandiera abbia. Non è importante chi scrive la storia ma la storia in sé, e questo sbaraglia qualsiasi forma di ideologia aprioristica. Se in Israele c’è la storia delle start up del vino a Rosh Pinà, il fatto è in sé una notizia che interessa tutti, che venga da Rosh Pinà oppure no. A chi gli faceva notare che era afro-americano, Barack Obama rispondeva: “sì, lo sono ma essere afroamericano non mi definisce. Io sono molto più di questo”. Questa è la ricetta: tu puoi essere ebreo, anche intrinsecamente ebreo come diceva Bruno Zevi, ma ciò non ti definisce perché fai e sei anche molte altre cose. È parte della tua identità ma non basta a definirti come persona.
La crisi degli stati nazionali parte da lontano…
Sì, certo, e gli israeliani furono i primi a capire che le famose primavere arabe sarebbero andate nella direzione della distruzione degli stati nazionali. Faccio un esempio: sono stato invitato alla moschea di Roma, durante il Ramadan, e sono rimasto colpito dall’analisi che i capi della moschea hanno fatto della sfida tra Arabia Saudita e Qatar. Siamo contro il Qatar, mi hanno spiegato, perché vuole la fine degli stati arabi e perché sostiene i Fratelli Musulmani i quali vogliono il Califfato che, in questa ottica, è l’impero, una entità sovranazionale, la Umma. Il fatto poi che ha più sorpreso i sauditi è stata la promessa della Turchia di dare armi e aiuto al Qatar. Non se lo aspettavano. Improvvisamente il partito di Erdogan, espressione dei Fratelli Musulmani in Turchia, si schiera col Qatar e crea un asse arabo sunnita a fianco dei Fratelli Musulmani. La Turchia non ha mai amato il nazionalismo arabo, sorto dopo il crollo dell’impero ottomano. Ha sempre coltivato una visione imperiale e sovranazionale, ecco perché capisce l’ideologia politica che sta dietro al Califfato. Anche l’Iran sciita, che li sostiene, è un ex impero. Ed ecco spiegato il perché gli arabi vedono nella Turchia e nell’Iran dei nemici storici che puntano a distruggere gli stati nazionali; e perché vedono nei Fratelli Musulmani il pericolo più grande. Nel mondo sunnita, ogni imam comanda nella propria moschea, non c’è una gerarchia, i Fratelli Musulmani invece hanno una struttura di partito, gerarchica, con un capo e dei gregari. Questo è inaccettabile per un sunnita che sa che se i Fratelli Musulmani vincono cambieranno il DNA dei sunniti.
Israele, l’isola degli ebrei: forse un’altra tribù?
Sì, certo, la più antica e insieme la più moderna. Andare in Israele per me è molto utile perché sta attraversando una fase di sviluppo incredibile, vuol dire raccogliere stimoli, come quando vado a New York. Gerusalemme è una delle città più tribali del mondo. Ebrei, musulmani, cristiani, armeni, vivono tutti insieme e nel contempo ciascuno a casa propria. In questo Rivlin ha ragione: la città vecchia è un modello di convivenza, tutti insieme ma ciascuno a casa sua.
Il personaggio di Vladimir Jabotinskij, considerato un terrorista: ne parli nel libro, ne rivaluti la visione politica…
Non io, lo fa il Presidente Reuven Rivlin. Che dice Jabotinskij? Costruisci un muro ma fai delle finestre, costruisci la palizzata ma sappi guardare anche dall’altra parte. Proteggiti per poter dialogare: è un modello opposto a quello di Ben Gurion. Probabilmente, nella fase iniziale della sua storia, Israele aveva bisogno dei laburisti, aveva bisogno di un modello di società collettivista che consentisse agli ebrei di tornare alla terra, viceversa lo stato non sarebbe potuto nascere. Ma oggi, questa fase storica è superata. L’idea del muro con le finestre è geniale: Jabotinski non pensò mai a uno stato di soli ebrei, pensava a uno stato di tutti, a una convivenza con gli arabi. Ognuno a casa sua ma con la possibilità di osservare l’altro, di averlo sotto lo sguardo e di averci a che fare. L’ho sentito dire anche da Moshè Arens che imputa al premier Netanyahu di aver dimenticato Jabotinski, il quale voleva la convivenza, non la separazione, con gli arabi. Gli ashkenaziti invece hanno sempre creduto nella separazione: voi a casa vostra, noi a casa nostra. Per i sefarditi, che invece hanno sempre vissuto con gli arabi, era diverso. Inoltre, Rivlin ribadisce la necessità di una democrazia dove ogni singolo tassello sia rispettato. È il modello della Turchia degli Ottomani: noi garantiamo tutti, in una compagine statale dove ognuno può essere se stesso, in un modello che non è basato sui confini – una idea occidentale – ma su una idea federale. Anche la deterrenza è un modello tribale: tu stai a casa tua e io a casa mia, ed è meglio così per tutti.
Il rapporto Israele-Diaspora negli ultimi anni, è diventato molto più dialettico e complementare…
Sì, e la mia idea è che questa novità nasca dal fatto che l’ebraico è diventato il nuovo yiddish. Il numero di giovani che va in Israele, studia, impara l’ebraico e poi torna nei paesi d’origine, è altissimo. Una gioventù internazionale che sa l’ebraico, che ama e conosce Israele per avervi studiato nei più begli anni della sua vita. Questo non è mai accaduto prima d’ora in maniera così significativa. Il risultato è che l’ebraico diventa una lingua veicolare, sovranazionale, come una volta lo era lo yiddish. Quando poi questi ragazzi si ritrovano nel loro Paese e incontrano ragazzi di altri Paesi europei, Australia o Sud America che hanno studiato in Israele, immediatamente scatta l’ebraico tra loro. Non è incredibile? C’è un nuovo mondo ebraico che esce dalle università israeliane e che crea un nuovo legame tra Israele e la Diaspora. È un vero network, così come 100 anni fa il network era definito dallo yiddish con russi, polacchi, tedeschi, lituani, slovacchi uniti dallo stesso idioma. Se alla lingua aggiungi la tecnologia, le start up… si crea un collante del tutto nuovo. Cento anni fa la città globale dell’universo ebraico era Varsavia, o Odessa. Oggi è Tel Aviv. Ed è pur sempre un modello ebraico, solo che cambiano la lingua e il luogo.
Quali gli step della fusione tra La Stampa e La Repubblica?
«Punterò su un potenziamento dell’economia e della politica estera. Con questa fusione sarà importante accentuare peculiarità e differenze tra i due quotidiani nazionali, cercando di distinguerli al massimo. L’errore più grave sarebbe quello di sovrapporsi, il lettore dovrà percepire immediatamente che si tratta di due giornali con DNA molto diversi. I due quotidiani cresceranno con formule opposte, in competizione tra loro. La Stampa oggi è un giornale glocal, cronache locali accanto alla politica internazionale, mentre invece La Repubblica è un mezzo di informazione molto identitario e connotato sul piano della politica. L’idea della fusione sta nel mettere in comune i costi industriali in modo da poter investire sui contenuti. La nostra redazione di Milano sarà molto coinvolta, crescerà, faremo eventi a Milano e la realtà locale del Nord – e non solo del Nord Ovest – troverà ampi spazi nel quotidiano. Economia e politica internazionale, dicevo: potenziare questi contenuti significa fare di Milano un punto di riferimento, metterla al centro. In fondo Milano è l’unica grande metropoli internazionale d’Italia».