di Roberto Zadik
Durante queste Feste ebraiche, lo scorso 14 ottobre, è scomparso a 89 anni uno dei più grandi critici letterari e saggisti contemporanei, l’ebreo newyorchese di origini russe, Harold Bloom. E quando un gigante se ne va, subito irrompe un inevitabile senso di perdita e di vuoto.
Tanti omaggi e ricordi, sia sui media internazionali, come Times of Israel, il New York Times che nazionali come Il Foglio e La Repubblica. Non si possono certo dimenticare splendidi volumi come Il Genio del 2002 (Rizzoli, 948pp) in cui elencò e analizzò un numero enorme di autori suddividendoli secondo le Sefirot, sfere cabbalistiche, dal Keter (Corona) al Hesed (Misericordia), quel misto di passione e di lucido pessimismo, la sua implacabile critica al mondo accademico statunitense, gesto coraggioso e per nulla scontato da parte di un autorevole docente universitario come lui che insegnò lungamente nel prestigioso ateneo di Yale e la sua “laica lucidità” lontana da qualsiasi categoria ideologica e politica e dai grandi dogmi novecenteschi, dal marxismo al multiculturalismo, tanto di moda in questi anni. Secondo il Times of Israel a comunicare la notizia del suo decesso è stata la moglie Jeanne Gould che sposata nel 1958 e madre dei suoi due figli, Daniel e David l’ha accompagnato nel suo brillante percorso umano, intellettuale e culturale fino alla sua morte avvenuta lunedì scorso all’ospedale di New Haven nel Connecticut. Cosa caratterizzò Bloom e quali furono le sue peculiarità? Prolifico e vitale, scrisse svariati libri, articoli e saggi, prodigioso autodidatta, nacque in una famiglia ortodossa di origine ucraino-bielorussa che secondo quanto riporta il “Times” non sapeva nemmeno leggere l’inglese e in cui la lingua dominante era lo Yiddish.
Personaggio complesso e vitale, Bloom cercò di mantenere sempre l’equilibrio fra raffinatezza culturale e accessibilità a vari tipi di lettore, trattando autori molto conosciuti, con spiccata preferenza per Shakespeare definito “inventore dell’umano”, Chaucer, quello dei Racconti di Canterbury divenuti un controverso film del regista e scrittore Pasolini, a Kafka, fino agli italiani Dante, che adorava, Pirandello e D’Annunzio e descrivendoli con uno stile chiaro e efficace. Difensore del Romanticismo e della tradizione letteraria europea e americana, celebre il suo discusso saggio Il Canone Occidentale (Rizzoli, 1994) spesso mischiò nella sua personalità e nella sua attività letteraria varie caratteristiche decisamente contraddittorie fra loro. Curiosità e grande apertura, conosceva libri da tutto il mondo, ma anche un certo conservatorismo unito a una spietata sincerità, come quando demolì scrittori acclamati come Toni Morrison e David Forster Wallace e a forte spirito polemico che gli provocò diverse antipatie e polemiche, rivelandosi nonostante tutto e anche per questo “uno dei personaggi culturalmente più stimolanti di questo periodo” come l’ha definito un articolo del 2011 sul sito del New York Times.
Molto originale, spesso anticonformista e in disaccordo col mondo circostante i suoi saggi abbondano di riferimenti alla mistica ebraica, a tematiche bibliche, anche se il suo rapporto con l’ebraismo fu molto difficile e a volte polemico. In un’interessante intervista apparsa nel 2003 sul Baltimore Sun egli si definì “un ebreo agnostico”. “Non posso definirmi in altro modo se non come prodotto della Cultura ebraica Yiddish anche se non capisco come un Dio onnipotente abbia potuto permettere orrori come i campi di sterminio nazisti o la schizofrenia”.
Per quasi mezzo secolo egli è stato uno dei protagonisti della scena culturale americana. Instancabile docente, critico, autore, “dotato di una prodigiosa memoria fotografica e capacità mostruose e in grado di assorbire volumi di 400 pagine e di recitare interi poemi shakesperiani a memoria” come ha sottolineato, sul New York Times il suo amico e correligionario Richard Bernstein, docente di Filosofia alla “New School” questo personaggio intenso e inquieto lavorò incessantemente nonostante fosse spesso cagionevole di salute, con vari problemi cardiaci. Molto apprezzato e di successo, tradotto in varie lingue, il suo saggio The Anxiety of Influence del 1973 venne tradotto in 45 lingue, divenne celebre fra i suoi colleghi, anche grazie al senso dell’umorismo corrosivo alla Samuel Johnson, umorista britannico settecentesco che adorava definendosi “la sua versione ebraica”, come rivela lo stesso articolo in cui viene svelata anche la sua passione per grandi comici ebrei americani come Zero Mostel a cui diceva di assomigliare anche fisicamente. Critico impietoso non solo dei libri ma anche della scena culturale e universitaria statunitense, polemico verso la sinistra e il marxismo “sono marxista ma preferisco Groucho a Karl” come affermò ironicamente, egli enfatizzò l’importanza estetica e letteraria dei libri, liberandoli da rigide visioni politiche e storiche e interrogandosi sull’incredibile mistero della creatività. Carismatico, intenso, dotato di una voce possente e di un forte magnetismo, nelle sue lezioni, secondo il Times of Israel per decenni incantava gli studenti spiegandoli gli scritti di grandi poeti come William Blake, Emily Dickinson, Yeats o Eliot a proposito dei quali scrisse in un articolo “essi mi liberarono in una esuberanza primordiale”.