di Ludovica Iacovacci
A seguito del pogrom del 7 ottobre 2023, si stima che tutt’oggi più di un centinaio di persone sopportino condizioni di vita terribili durante la prigionia imposta dai terroristi di Hamas nella Striscia di Gaza. Tra i rapiti, ci sono giovani donne che subiscono violenze e abusi sessuali. Le loro famiglie sono perseguitate da pensieri terrificanti sulle condizioni dei loro cari e sulla possibilità di gravidanze forzate.
In occasione del nono mese dal rapimento, il Forum delle famiglie degli ostaggi ha organizzato un incontro virtuale chiamato Nove mesi di prigionia: violenza sessuale e la paura di gravidanze forzate. Durante l’evento alcuni genitori delle giovani rapite hanno condiviso i loro pensieri e le loro esperienze. Inoltre, una psicologa ha discusso del supporto psicologico e delle strategie di adattamento affinché le persone rilasciate possano tornare alla loro vita ordinaria, affrontare i traumi ed essere facilitate nel recupero. Particolare attenzione è stata prestata alle potenziali esigenze delle rimpatriate incinte.
Durante l’incontro sono intervenuti: Meirav Leshem Gonen (madre di Romi Gonen), Simona Steinbrecher (madre di Doron Steinbrecher), Orli Gilboa (madre di Daniella Gilboa), Shlomi Berger (padre di Agam Berger) e la dott.ssa Einat Yehene, psicologa senior della riabilitazione, responsabile della riabilitazione, divisione sanitaria, Forum delle famiglie degli ostaggi.
Intanto martedì 16 luglio le famiglie delle ragazze hanno permesso la pubblicazione di foto che le mostrano durante i primi giorni di prigionia. Le immagini le ritraggono contuse e ferite a causa dell’orribile rapimento di cui tutto il mondo è stato testimone. Le immagini le ritraggono contuse e ferite a causa dell’orribile rapimento di cui tutto il mondo è stato testimone.
“Sono passati più di nove mesi da quando sono state scattate queste foto che ritraggono Agam Berger, Daniella Gilboa, Liri Albag, Naama Levy e Karina Ariev durante i primi giorni di prigionia di Hamas a Gaza si legge nel comunicato diffuso dal Forum delle famiglie degli ostaggi -. La coraggiosa decisione dei genitori di rivelare queste foto ha lo scopo di avvicinarli a riabbracciare le loro figlie. Manca solo un accordo che riporti a casa tutti i 120 ostaggi, quelli vivi per la riabilitazione e quelli uccisi e caduti per una degna sepoltura. Chiediamo che il governo israeliano, e in particolare il suo leader, guardi queste ragazze negli occhi, provi a immaginare ciò che loro e tutti gli ostaggi hanno sopportato per 284 giorni, e faccia tutto il possibile per riportarle a casa”.
La testimonianza delle famiglie
La prima voce che prende parola all’evento è quella di Orli Gilboa, la madre di Daniella Gilboa. Recentemente, i familiari di Daniella hanno acconsentito alla pubblicazione di un video in cui la figlia sembra rilasciare forti dichiarazioni. Il filmato è stato girato durante la prigionia e il gruppo palestinese di Hamas lo aveva fatto trapelare a gennaio ma solo da pochi giorni è stato ampiamente reso noto. Il Forum delle famiglie degli ostaggi israeliani aveva inoltre già diffuso a maggio un video in cui si vedeva Daniella Gilboa: le scene delle telecamere dei terroristi mostravano il rapimento, il 7 ottobre scorso, di cinque osservatrici militari della base di Nahal Oz, tra cui Daniella.
“Lei era in osservazione nella base di Nahal Oz, faceva parte dell’esercito israeliano ma non era una soldatessa combattente” spiega la mamma di Daniella, Orli Gilboa. “Tre mesi fa, ha compiuto 20 anni. È stata rapita il 7 ottobre insieme ad altre 6 amiche, una di loro è stata salvata dal Tzahal, una uccisa da Hamas, le restanti sono ancora prigioniere. Daniella è una giovane e bella ragazza, scriveva canzoni e suonava il piano. Nel video pubblicato si può vedere quanta violenza sia stata usata. Qualche giorno fa si sono compiuti i 9 mesi dalla cattura, in 9 mesi si può partire un bambino, si può donare la vita. In questa situazione, quando giovani ragazze sono nelle mani di terroristi, vittime di stupri e abusi sessuali, io come madre non posso far altro che pensare che lo scadere di questi nove mesi sia un brutto giorno per mia figlia, se dovesse essere rimasta incinta. In questo tempo cerco di essere più ottimista perché sappiamo che sul tavolo c’è un accordo. Speriamo che entrambe le parti vogliano una tregua, io so che entrambe la vogliono ma a volte si cerca di rendere questo accordo più difficile per tutti.” Orli Gilboa conclude rivolgendosi al governo israeliano: “Vorrei appellarmi al Primo Ministro di Israele, Benjamin Netanhayu, e a tutto il governo: non mollate e raggiungete questo accordo con tutta la vostra forza. Nove mesi sono troppi. Per favore, vi chiedo di fare qualsiasi cosa per pressare Hamas e anche Israele, per raggiungere un accordo. Grazie”.
In occasione dell’evento, Simona Steinbrecher, la madre di Doron Steinbrecher, ha scelto di far leggere una lettera dedicata alla figlia. Il 7 ottobre Doron Steinbrecher, 30 anni, si trovava nel suo appartamento nel Kibbutz Kfar Aza quando i terroristi di Hamas hanno invaso la comunità uccidendo e rapendo dozzine di residenti. Vicino a Doron vivevano la sorella sposata, Yamit Ashkenazi, e i loro genitori.
“Doron è stata rapita da Kfar Aza. La mia Doron, la mia bellissima figlia…”; così inizia la lettera della mamma Simona.
“Il nome Doron significa “dono” ed è stato il nostro regalo. Quando sei nata hai regalato così tanto alla nostra famiglia, con i tuoi occhi blu. Per 9 mesi ti ho portato in grembo e ti ho amato e protetto a tutti i costi. Anche quando sei andata in Sud America per 6 mesi, mi sono fidata di te e tu ti sei lasciata proteggere da lontano. Quella relazione speciale che si è creata quando per 9 mesi hai vissuto dentro di me, ti avrebbe protetto da tutto. Hai scelto di diventare un’infermiera veterinario. Credo che il modo in cui ti ho insegnato ad amare ed aiutare il prossimo si sia trasferito in te nell’amare gli animali e gli altri. Adesso sono passati 9 mesi da quando ti hanno brutalmente rapito. In passato, eri sempre circondata da amici, eri il collante del gruppo. Tu eri sola e io ero a soli 10 metri da te, non ti ho potuto aiutare (durante il massacro del 7 ottobre, ndr). Il mio cuore si è rotto quando ho perso il contatto con te, quando non ti ho potuto proteggere e abbracciare nell’orrore di quello che stavi subendo. Durante il 107° giorno Hamas ha rilasciato un video. Ti ho visto malata ma forte nella mente e nel cuore. Ho sentito che ancora sapevi che tua mamma, con la mente e col cuore, fosse con te. Farei qualsiasi cosa per essere lì accanto a te, dentro al buio che stai attraversando. Ho portato le tue lacrime dovunque, ho parlato con chiunque, in qualsiasi lingua che conosco. Vorrei poter cambiare posto, vorrei che continuassi ad essere dentro di me per proteggerti dal demonio che perseguita te e noi da 9 mesi. Noi gridiamo forte il tuo silenzio e ti aspettiamo. La tua famiglia ti sta aspettando. Ci manchi. Ti amiamo”.
Simona Steinbrecher conclude: “Noi vogliamo nostra figlia a casa, noi vogliamo gli ostaggi a casa. Quel giorno è stato terribile vedere Hamas che circondava le nostre case. So che mia figlia è sola lì, vorrei aiutarla. Adesso sono passati 9 mesi e sappiamo che lì avvengono gli abusi sessuali, siamo molto preoccupati per nostra figlia, per le giovani ragazze lì. Dobbiamo fare qualsiasi cosa per raggiungere l’accordo con Hamas. Adesso è l’ultimo momento”.
Una voce maschile continua il filone delle testimonianze, è la voce di un papà. Si tratta di Shlomi Berger, il padre di Agam Berger, rapita da Hamas dalla base di Nahal Oz. C’è anche la famiglia Berger tra i parenti che hanno acconsentito alla pubblicazione del video delle soldatesse rapite dalla base di Nahal Oz, dove compare anche Agam Berger.
“Siete la mia voce, siete la nostra voce” inizia così il discorso di Shlomi. “Molte persone non hanno capito cosa stia succedendo qui, quindi prima di tutto vi ringrazio. Sono il padre di Agam, una ragazza di 19 anni. Il primo accordo [per il rilascio degli ostaggi, ndr] è iniziato il 24 novembre e il 26 novembre era il mio compleanno. Di sera ero seduto a casa con mia moglie ed è squillato il telefono. Dall’altra parte c’era una giovane ragazza che ha detto: “Ciao Shlomi, anche il mio nome è Agam, io ero prigioniera insieme a tua figlia, voleva augurarti un buon compleanno”.
Un mese fa è stato il ventesimo compleanno di mia figlia ma io non voglio augurarle buon compleanno, voglio abbracciarla e parlarle. Non avrei mai immaginato che io ed altri ci trovassimo in questa situazione. Tutti vogliono che la guerra finisca e dobbiamo finirla, ma l’unico modo per farlo è che Hamas porti indietro gli ostaggi. Se questo non succede, la guerra non si fermerà. Tutti dovrebbero capirlo. Sfortunatamente, nessuno si fermerà. Non si fermerà nulla finché l’ultimo corpo morto non sarà qui, sia quelli vivi e sia quelli morti; quindi dovete fare qualsiasi cosa sia possibile per finire la guerra e pressare Hamas. Il primo su cui far pressione tra tutti è il Qatar, il protagonista in campo, che può arrivare ad un accordo se vuole. La cosa più importante che si può fare è fare pressione. Noi la stiamo facendo al governo israeliano. Dovete raggiungere un accordo, non c’è altra soluzione: è la cosa più importante”.
Infine, il giro di testimonianze si conclude con di Meirav Leshem Gonen, la madre di Romi Gonen. La ragazza era al Nova Festival quando i terroristi di Hamas hanno compiuto il massacro. Romi ha cercato di scappare, fuggendo con una macchina insieme ad altri tre giovani, ma non ce l’ha fatta. Quando Hamas ha raggiunto il veicolo, sono morti tutti i passeggeri tranne lei; così è stata rapita.
“Mia figlia è stata rapita al Nova Festival a 23 anni, ne ha compiuti 24 in agosto” afferma la madre Meiray Leshem Gonen. “Ho cinque figli: tre ragazze e due ragazzi. Sono tutti belli, splendono come il sole e ho insegnato loro a dire quando qualcosa fosse piacevole per loro e quando no. Ho insegnato alle mie figlie a dire: “Questo è il mio corpo, per favore, non toccarlo” e ho insegnato loro ad onorare lo spirito e i corpi. Il 7 ottobre questa libertà è stata sottratta a Romi. Lei è stata catturata dopo aver cercato di scappare via con i suoi amici in macchina. Le hanno sparato alla mano. Ero al telefono con lei quando l’hanno presa. Ho parlato con lei 45 minuti, sentendo quello che stava succedendo. C’erano spari intorno, le voci dei terroristi arrivavano fino alla macchina e hanno cercato di fermarla. I terroristi hanno parlato del fatto che lei fosse ancora viva, così hanno aperto la macchina dal suo lato e l’hanno trascinata per i suoi bellissimi capelli per strada, come fosse un fantoccio, l’hanno colpita. Quando ha cercato di guardare cosa le avessero fatto, loro le hanno tirato un pugno in faccia e gli è venuto un grande bernoccolo che le è rimasto per giorni. Questo lo sappiamo grazie ad alcuni ostaggi che sono tornati. Quando è stata rapita, non sapevo se fosse stato meglio vederla morta perché sarebbe stata uccisa oppure se era meglio tenerla come prigioniera. Io sono sua madre, le ho dato la vita. Quando mi sono resa conto che la stavano rapendo e che erancora viva, quello è stato un momento di gioia. È dal principio che lottiamo per riportarla a casa, di riportare tutti a casa, anche i corpi. Credo che il mondo che conosciamo e nel quale viviamo, il mondo libero, a volte è un po’ confuso nello scegliere cosa sia giusto o sbagliato. Tutti noi combattiamo il diavolo puro che Hamas rappresenta, per noi del mondo libero e per il popolo di Gaza”.
Infine Meirav Leshem Gonen legge alcuni passi di un discorso che ha pronunciato davanti alla Commissione d’inchiesta del Consiglio per i diritti umani delle Nazioni Unite contro Israele a Ginevra. La donna ha riassunto la storia della figlia, quello che lei stessa ha potuto sentire tramite la cornetta di un telefono e vivere in diretta col cuore in gola, seppur a distanza, impossibilitata nell’aiutare la sua Romi. “Quando i corpi delle donne vengono usati come strumenti politici, quando la loro dignità viene messa da parte perché non sono dalla parte giusta, è un segno di vergogna per tutti noi”, ha detto al Consiglio. La donna conclude il suo discorso leggendo una frase, un pensiero che nutrono tutte le famiglie degli ostaggi, il messaggio al centro di questo evento ovvero l’insopportabilità del tempo trascorso lontani dai familiari rapiti, con un occhio di riguardo per le possibili gravidanze forzate: “Dobbiamo fare in modo che questo accordo diventi reale. Adesso. Dovete liberarli, 9 mesi sono troppi: soprattutto per le donne”.
L’impatto devastante di un rapimento e violenza sessuale
L’intervento da parte dei genitori preoccupati per la vita e per le potenziali gravidanze delle loro figlie viene arricchito dagli spunti della dottoressa Einat Yehene, psicologa senior della riabilitazione, responsabile della riabilitazione, divisione sanitaria, Forum delle famiglie degli ostaggi.
“Il trauma di un rapimento, incrementato da una violenza sessuale, ha un impatto profondo sia sulla salute mentale sia su quella fisica” spiega la psicologa. “Stress post traumatico e depressione sono alcuni dei sintomi che si possono verificare. Questo è documentato dalla letteratura e dalle pratiche cliniche. L’aggiunta di una potenziale gravidanza in uno stato di prigionia aggiunge complessità nel processo di recupero non solo per il ritorno dell’ostaggio ma anche per la sua famiglia. La scoperta della gravidanza nel ritorno degli ostaggi è di per sé una situazione complessa, potrebbe includere shock, confusione, paura e anche emozioni contrastanti che riguardano la gravidanza stessa. È nostro compito creare un ambiente sicuro e non giudicante che prenda in considerazione l’esperienza personale e provveda nel dare il supporto necessario alle esigenze emotive. In termini di rischi per salute, ogni gravidanza a seguito di un trauma può comportare significativi rischi: psicologici, fisici, o anche le condizioni in cui versa una prigioniera, come la scarsa quantità di luce, di cibo e la mancanza di assistenza medica. Tutto questo potrebbe compromettere la salute della paziente.
Inoltre, è fondamentale avere assistenza medica per la salute della donna. La gravidanza è qualcosa di visibile: qualcosa che, con il ritorno degli ostaggi a casa, potrebbe comportare l’esposizione pubblica di un trauma personale senza neanche doversi discolpare. Dobbiamo considerare questi elementi anche in anticipo. Ci sono molte ambiguità sul ritorno degli ostaggi e per ognuno di loro ci sono diversi scenari ma dobbiamo approcciarsi a queste ambiguità con compassione e professionalità. Il supporto psicologico per una riabilitazione è cruciale. Tutta l’opinione pubblica è in attesa per il ritorno degli ostaggi. Molte persone hanno conosciuto le loro storie senza neanche conoscerli prima del 7 ottobre. Mantenere la loro privacy e la loro dignità può essere significativamente importante” conclude la dottoressa Einat Yehene.