Il valico di Karni fra Gaza e Israele

“Pensavo che tutti gli israeliani portassero un’arma”: una ragazzina di Gaza in Israele, oltre paure e pregiudizi

Personaggi e Storie

di Nathan Greppi
Avendo provato in prima persona gli orrori della guerra fin dalla tenera età, la dodicenne di Gaza “Gimel”, identificata con la prima lettera del suo nome in ebraico per preservarne l’anonimato, ha sviluppato un disturbo da stress post-traumatico. Molto diffuso in particolare tra i militari rimasti traumatizzati in guerra, a causa di questo disturbo la giovane viveva sempre nella paura, tanto che non riusciva a prendere parte alle varie attività con i suoi coetanei né a separarsi dai genitori.

Per aiutarla a superare le sue paure, il padre è riuscito ad ottenere un permesso per portarla oltre il confine tra la Striscia e Israele. Come ha spiegato il Times of Israel, raramente capita che dei gazawi ottengano il permesso di superare il confine, e loro hanno ottenuto il supporto del quotidiano israeliano Yedioth Ahronoth e del relativo sito Ynet per compiere quella che è stata definita una “visita di resilienza”.

“Le sue paure la dominavano,” ha spiegato al sito Ynet il padre di Gimel, che si reca spesso oltre il confine per lavoro. “Ogni volta che vado in Israele, ha paura che mi succeda qualcosa. Le ripeto continuamente che non c’è niente di cui preoccuparsi, che ci vado per guadagnarci da vivere.”

Da qui, l’idea che portarla in Israele l’avrebbe aiutata a superare le sue paure. Purtroppo, ha spiegato, “ci sono bambini a Gaza che pensano che in Israele vivano dei mostri che vogliono uccidere gli arabi.” Una volta entrata nel paese, non ha mai smesso di riprendere con la videocamera del cellulare, meravigliata dai prati e dalle zone verdi. Il padre le ha fatto fare un giro di 4 giorni, durante i quali hanno visitato diverse città, quali Gerusalemme, Ashkelon, Giaffa e Tel Aviv.

Ha anche conosciuto altri bambini israeliani nel Kibbutz Nir Am, situato a ridosso del confine con la Striscia. Con uno di questi, Shoham, nonostante non parlassero la lingua dell’altro hanno comunicato tramite app di traduzione sui telefonini. Gimel e il padre si sono confrontati con la gente del posto; all’inizio i bambini ebrei avevano paura quando scoprivano che erano di Gaza, ma dopo un po’ di confronto c’è stata comprensione reciproca.

Nel corso della sua visita, Gimel si è recata anche in uno zoo a Sderot gestito dal Centro Hossen (“resilienza” in ebraico). Siccome Sderot è stata negli ultimi anni una delle città israeliane più colpite dai missili che partivano da Gaza, nel Centro Hossen si sviluppano varie terapie per aiutare chi ha riportato traumi simili a quello di Gimel; terapie che, in alcuni casi, riguardano il prendersi cura degli animali.

Ad accompagnarla è stato Ibrahim al-Etauna, direttore del Centro di Resilienza Beduino del Negev, il quale ha poi detto a Ynet: “Ho avuto l’impressione che abbia capito come la realtà non sia bianca o nera, ma il pensiero della guerra la spaventa tuttora. In ogni caso, ha detto che d’ora in poi sarà meno preoccupata quando il padre andrà a lavorare in Israele.”

Al termine del giro, Gimel si è detta soddisfatta dell’esperienza: “Pensavo che in Israele tutti avessero uniformi militari e portassero le pistole, ma gli ebrei erano proprio carini,” ha detto. Dal canto suo, il padre ha voluto pensare positivo: “Vogliamo vivere da buoni vicini, con amore e cooperazione. Spero che un giorno tutta questa situazione finisca, e che i bambini gazawi e israeliani possano convivere da bravi vicini. Fosse per loro, ci sarebbe già la pace e tutto sarebbe a posto. Spero che mia figlia possa visitare nuovamente Israele.”

(Foto: il valico di Karni fra Gaza e Israele. Fonte: Wikipedia)