di Avi Shalom
Jonathan Pollard: il suo nome fa ancora tremare gli ebrei americani. Liberato dopo 35 anni dagli Usa, l’agente segreto rivela i retroscena del suo arresto e l’abbandono da parte del governo di Israele
«Mia moglie Ann ed io eravamo seguiti da agenti dell’Fbi, armati di fucili. Un elicottero volteggiava sopra di noi. Insomma, arriviamo all’ingresso dell’ambasciata. Il guardiano israeliano si para davanti all’auto. Gli faccio un segnale con i fari. Il cancello si apre. ‘Tutto a posto – mi dice – Siete a casa’. Però poi si allontana, parlotta con altri. Al piano superiore tutte le persiane si abbassano di colpo. ‘Dovete uscire – ci informa. – Ordine da Gerusalemme’. Fuori gli agenti dell’Fbi attendono al varco. Chiaro cosa ci aspetta. Prima di risalire nell’auto, il guardiano mi dice: ‘Il tuo capo vorrebbe comunque ricevere il tuo ultimo rapporto’». Pronuncio la parola in codice, quindi mi consegno all’Fbi. Per ammanettarmi mi piegano la testa premendola sul cofano dell’auto. Era una fredda giornata di novembre. L’ultima cosa che vedo è la bandiera di Israele che sventola sull’ambasciata». Trentacinque anni dopo il suo drammatico arresto a Washington, la spia Jonathan Pollard (66 anni) parla per la prima volta della vicenda che più ha messo alla prova le relazioni strategiche fra Israele e Stati Uniti (fatta eccezione per l’attacco israeliano del 1967 alla nave Liberty, che causò la morte di 34 membri della marina militare statunitense).
Pollard: il suo solo nome fa ancora tremare gli ebrei Usa, per i quali nulla è rimasto lo stesso dopo quel 21 novembre 1985 quando cadde nelle mani dell’Fbi. Con le sue azioni aveva posto un lampeggiante punto interrogativo circa la loro fedeltà agli Stati Uniti. Adesso che si è stabilito con la seconda moglie Esther in un rione residenziale di Gerusalemme, Pollard è finalmente libero di sfogarsi: con i dirigenti americani, con i governi israeliani e anche con gli ebrei Usa. Lo ha fatto in una intervista-fiume pubblicata da Israel ha-Yom.
Un’intervista che però non è in grado di leggere, perché la super-spia manovrata da Israele negli anni 1984-85 nei meandri dell’intelligence militare della marina statunitense ancora oggi sa solo poche parole di ebraico. La sua ricostruzione è lineare. Nel suo lavoro di analista della marina militare, ha l’incombenza di raccogliere informazioni di intelligence sui diversi Paesi del Medio Oriente. Sul suo tavolo passano fra l’altro documenti allarmanti che riguardano la sicurezza di Israele. La fedeltà a oltranza al popolo ebraico gli era stata instillata dal padre Morris, sopravvissuto per miracolo all’Olocausto. Pollard è inquieto in particolare perché pare che l’Iraq stia lavorando ad armi chimiche. «Non sarebbe il caso di parlarne con i nostri alleati israeliani ?», chiede ai superiori. Ma nei corridoi dell’intelligence “spira un’atmosfera antisemita”. «Meglio tacere. – gli viene risposto. – Lo sai quanto gli ebrei siano sensibili ai gas».
Il “tradimento”
Il passo successivo è breve: l’incontro con l’addetto scientifico di Israele a Washington (il col. Aviam Sela, l’ideatore del blitz areo contro il centro nucleare Osirak di Saddam Hussein, nel 1981, n.d.a). «Gli Usa vi tengono nascoste informazioni molto gravi. Vi pugnalano alla schiena», avverte Pollard. Sela si consulta con Rafi Eitan, colui che nel 1960 aveva catturato in Argentina Adolf Eichmann. Nel 1984 Eitan gestisce in maniera abbastanza disinvolta il Lekem, l’Ufficio di collegamento scientifico, nel ministero della difesa di Israele. E subito ordina a Sela di approntare a Washington un appartamento segreto dove sia possibile fotografare i documenti riservati che Pollard è disposto a inoltrare allo Stato ebraico. In Israele ci sono stati governi di livello alterno: a volte migliori, a volte mediocri. Ma la squadra del 1984 è composta da super-star assolute: Shimon Peres, premier; Yitzhak Rabin, difesa, Yitzhak Shamir, esteri. Capo dell’intelligence, Ehud Barak, il militare più decorato di Zahal. Sono anni in cui Israele ancora non dispone di satelliti e dipende non poco dagli Stati Uniti per sapere cosa bolle in pentola negli Stati nemici della Regione. E quando sul tavolo di Rafi Eitan cominciano ad arrivare i documenti sottratti da Pollard (molti dei quali lasciano a bocca aperta perfino il Mossad) è difficile immaginare che leader talmente esperti non si siano interrogati su quale ne fosse la fonte. Nell’intervista a Israel ha-Yom Pollard conferma fra l’altro che c’erano le sue impronte digitali nel blitz aereo di 2300 km contro le basi dell’Olp a Tunisi, nel 1985. Era stato lui, secondo il giornale, a fornire le immagini aeree necessarie. (Pollard, al momento della sua scarcerazione, si è impegnato a non rivelare mai cosa abbia in effetti inoltrato ad Israele n.d.a).
Ad ogni modo, conferma adesso che dal suo ufficio seguì l’andamento dell’attacco. In caso di complicazioni, avrebbe composto un numero di telefono e fermato il blitz. A cose fatte, fu compiaciuto che «i bastardi avessero ricevuto la lezione dovuta. Solo peccato – rivela – che l’obiettivo del raid, Yasser Arafat, sia riuscito a sfuggire alla fine che meritava». Pollard sostiene che fu il generale Barak a fargli sapere – attraverso Rafi Eitan – che Israele necessitava di informazioni dettagliate sulla produzione di armi chimiche in Iraq. Fu grazie alle sue informazioni – ha aggiunto la moglie Esther – che Israele avrebbe deciso alcuni anni dopo di distribuire alla popolazione maschere antigas e siringhe di atropina, – un antidoto ritenuto efficace contro gas nervini. In quegli anni Pollard percepisce da Israele 1500 dollari al mese, che poi saliranno a 2500. «Erano rimborsi spese, per biglietti aerei e alberghi», spiega. «Ed il conto segreto in Svizzera?». «Fu Eitan a farmelo aprire. Ma non so per chi fosse, comunque non era per me. Io oggi non ho risparmi da parte».
Il terreno si fa pericoloso
Pollard ormai avverte che il terreno comincia a scottare sotto i piedi e ne parla con Rafi Eitan. «Se ti catturano – è la risposta – racconta che lavoravi per il Pakistan». «E se mi bloccano in ufficio, in un palazzo che ha solo due entrate, entrambe ben sorvegliate?». «Yihiè be-seder, andrà bene – lo tranquilizza la vecchia spia israeliana. – Vedrai che ti tiriamo fuori».
Invece, subito dopo la cattura, il governo israeliano prende immediatamente le distanze da lui, e anche da Eitan. Peres, Rabin e Shamir dicono a Washington di non aver mai ordinato alcuna operazione di intelligence negli Stati Uniti e restituiscono tutti i documenti ricevuti. In cella Pollard riceve intanto una visita: «Entra un israeliano di alto grado, che non conoscevo. È accompagnato da un ufficiale della Nsa, la agenzia di sicurezza nazionale. La conversazione si fa strana. Lui mi chiede: ‘Ti consideri un patriota israeliano?’. Io rispondo: ‘Credo di sì’. ‘Lo sai che stai creando molti problemi al Paese?’ Rispondo: ‘Sono spiacente’. E lui: ‘Un vero patriota farebbe adesso la cosa più onorevole’. Lì per lì non capisco. Poi comprendo: suggerivano che mi suicidassi!».
30 anni di carcere
Nell’intervista, Pollard descrive i 30 anni di carcere, le risse rabbiose fra i detenuti e il sangue che scorre sul pavimento, il coltello di plexiglass sempre nascosto nelle pieghe dei suoi abiti nel timore di agguati a sorpresa, e le “duemila lettere” scritte a Esther – la futura moglie – e poi alla madre morente: credeva di averle spedite, ma in realtà non venivano mai inoltrate al destinatario, per volere della direzione del carcere. Nel 2015, la scarcerazione. Ancora una volta il suo destino personale è legato a quello della Regione. Il presidente Barack Obama sta per sottoscrivere gli accordi sul nucleare con l’Iran e secondo Pollard necessita di una carta «per tranquilizzare quanti lo accusano di non tenere in sufficiente considerazione le necessità di sicurezza di Israele». Quel gesto, sia pure simbolico, può servirgli politicamente. Jonathan non è ancora un uomo libero: deve indossare un braccialetto elettronico, gli è vietato allontanarsi da Manhattan. Solo nel dicembre 2020, alla fine del mandato di Donald Trump, riceve la autorizzazione di immigrare in Israele. All’aeroporto Ben Gurion lo attende Benyamin Netanyahu e gli consegna la carta di identità israeliana. «Finalmente mi sento a casa» dice Pollard. Nell’intervista, Pollard sfoga tutta la propria amarezza verso i governanti degli Stati Uniti e anche verso i governi di Israele che – accusa – hanno presentato di lui una visione distorta, mettendo in giro anche informazioni denigratorie. «Forse li disturbava che io fossi troppo fiero, troppo ebreo, troppo nazionalista, con la kippà in testa. Forse per le mie idee politiche di destra. Non solo Israele ha tradito un suo agente e lo ha abbandonato, ha anche cercato di seppellirlo con menzogne». Per il popolo d’Israele e per la terra d’Israele prova invece un amore sconfinato. Ora finalmente si sente a casa, e a Gerusalemme si costruirà il futuro. E qual è la lezione della sua vicenda che gli ebrei statunitensi dovrebbero tenere a mente, quando sono accusati di una “doppia lealtà”? Qui Pollard – che gli intervistatori hanno trovato essere un conversatore affabile – perde le staffe. «Se non ami le accuse di doppia lealtà, devi immigrare in Israele. È così semplice. Ma se tu vivi in un Paese dove sei esposto costantemente a quella accusa, se vieni visto come una persona di cui non ci si può fidare, allora non appartieni a quel posto. Noi ebrei – avverte – avremo sempre una doppia lealtà, quando viviamo nella Diaspora. ‘Loro’ non si fideranno mai di noi. Saremo sempre oggetto di sospetti. Questa – conclude – è la natura della Diaspora».