di Marina Gersony
Una giovane madre terrorizzata con i due bimbi piccoli dai capelli rossi. Un uomo di 83 anni, un vero attivista per la pace. Sono le immagini e le storie dei quattro ostaggi di cui ieri Hamas ha restituito i corpi, in un circo della disumanità, a cui si è aggiunta la beffa di uno non restituito. Israele è sempre più consapevole di essere di fronte a un nemico che non conosce alcuna pietà.
Ci sono immagini che spezzano l’anima. Ci sono voci che testimoniano l’orrore subito. Ci sono storie che non potranno mai essere dimenticate. Come quella della famiglia Bibas e di Oded Lifshitz. Sono passati più di 500 giorni dal 7 ottobre, il giorno in cui il mondo ha visto il male nella sua forma più pura. I video di quella giornata restano incisi nella memoria collettiva come una cicatrice che non potrà più rimarginarsi. In uno di quei filmati, girato dagli stessi terroristi di Hamas, si rivedono immagini tristemente note: Shiri Bibas, terrorizzata, con i suoi due bambini tra le braccia. Ariel, 4 anni, e Kfir, solo 9 mesi. Occhi sgranati, colmi di un terrore senza nome, senza perché. Un panico incomprensibile per chi non ha vissuto quell’inferno. È un dolore che nessuna madre, nessun bambino al mondo dovrebbe conoscere.
Shiri viene portata via tra le urla dei rapitori, separata per sempre dal marito Yarden, un giovane israeliano di origini argentine e peruviane. La famiglia Bibas viveva nel kibbutz Nir Oz, una delle comunità più colpite il 7 ottobre. I genitori di Shiri, che abitavano anch’essi nel kibbutz, furono trovati e in seguito uccisi. Nessuno, allora, avrebbe potuto immaginare l’orrore che attendeva quella giovane mamma e i suoi piccoli, strappati via in un tempo che si credeva fosse di pace.
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Pochi giorni dopo, un’altra immagine straziante: Yarden Bibas, sanguinante, trascinato via dai terroristi. Un uomo, un marito, un padre, portato verso una destinazione ignota. Separato per sempre da sua moglie e dai suoi figli. Nessuna vita innocente dovrebbe mai essere spezzata dall’odio, dalla violenza, dalla brutalità umana. Eppure, nonostante la tragedia di ogni perdita durante un conflitto, esiste una differenza sostanziale tra morire sotto un bombardamento nemico in guerra ed essere braccati, catturati e deportati verso la morte intenzionalmente. Due realtà ugualmente orribili e devastanti, ma profondamente diverse. Un tema che infiamma i dibattiti in queste tristi giornate.
Una speranza senza risposte
Hamas ha negato la verità per mesi, lasciando che il mondo sperasse. A novembre ha diffuso un video in cui Shiri e i suoi bambini apparivano ancora vivi. Poi, il silenzio. Israele continuava a chiedere notizie. Hamas rispondeva con il nulla: frasi spezzate, sospese, spietate. Fino a dicembre, quando è arrivato l’annuncio: Shiri e i bambini erano stati uccisi, secondo loro, da un bombardamento israeliano. Nessuna prova, nessun corpo. Solo un’altra coltellata nel cuore di chi sperava ancora. Il loro rapimento ha scosso l’opinione pubblica, diventando un simbolo della lotta per il ritorno degli ostaggi. In loro memoria, i sostenitori hanno scelto il colore arancione, il colore dei bambini Bibas.
Il dramma di un padre
Nel frattempo, Yarden Bibas è rimasto in cattività, ignaro di dove si trovasse o del destino della sua famiglia. Il 1° febbraio 2025 è stato rilasciato nell’ambito di un accordo di cessate il fuoco e di uno scambio di prigionieri tra Hamas e Israele. È tornato in Israele vivo, ma distrutto. Non potrà mai più sentire la risata di Ariel, il pianto di Kfir, la voce di Shiri che lo chiama. Non potrà più abbracciarli. Il presidente israeliano Isaac Herzog ha espresso il dolore della nazione: «Agonia. Dolore. Non ci sono parole. I nostri cuori, i cuori di un’intera nazione, giacciono a brandelli. A nome dello Stato di Israele, chino la testa e chiedo perdono. Perdono per non avervi protetti in quel giorno terribile. Perdono per non avervi riportati a casa sani e salvi. Che il loro ricordo sia una benedizione».
- Leggi anche: La famiglia Bibas: “Yarden ci chiede dove sono la moglie e i figli, ma non abbiamo risposta”
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La restituzione delle bare: un circo della disumanità
Ieri il cerchio si è chiuso con una crudeltà che ha scioccato il mondo. Hamas ha deciso di trasformare la restituzione dei corpi in un macabro spettacolo piuttosto che uno scambio umanitario dignitoso. Le bare – quattro, nere, con le immagini delle vittime sopra – sono state esposte come trofei in mezzo a una folla esultante, tra uomini armati mascherati, musica in sottofondo, foto, sorrisi, bambini palestinesi portati a guardare quella scena come se fosse un circo dell’orrore. Una scena ampiamente condannata come uno spettacolo grottesco e degradante. Un circo della disumanità.
Un corpo senza nome
Nel frattempo, stamattina, è giunta un’altra notizia sconvolgente: per quanto riguarda il corpo di Shiri Bibas, che si pensava fosse nella bara a lei destinata, l’IDF hanno rivelato che i resti non appartenevano né a Shiri né a nessun altro ostaggio. La scoperta è stata fatta dopo che i forensi hanno identificato i quattro corpi ricevuti ieri. Danny Danon, ambasciatore di Israele presso l’ONU, ha chiesto una condanna formale per l’incidente. Il primo ministro israeliano, Benjamin Netanyahu, ha dichiarato che la consegna del corpo sbagliato da parte di Hamas dimostra che «la crudeltà dei mostri di Hamas non ha limiti». Ha aggiunto: «Non solo hanno rapito Yarden Bibas, Shiri e i loro due bambini, ma in modo cinico hanno messo nella bara il corpo di una donna di Gaza, invece di restituire Shiri insieme ai suoi figli».
Gli esperti forensi hanno inoltre confermato che i corpi dei piccoli Ariel, Kfir e dell’ottantenne Oded sono stati uccisi dai terroristi poche settimane dopo il rapimento. In Argentina, il presidente Javier Milei ha dichiarato due giorni di lutto nazionale per i due bambini Bibas, in quanto avevano la doppia cittadinanza argentina.
Oded Lifshitz, il costruttore di pace ucciso
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Hamas ha fatto firmare i documenti della consegna alla Croce Rossa su un palco, davanti a centinaia di persone, tra urla di giubilo e propaganda. Eppure, dentro quelle bare c’erano due bambini, un neonato e un bambino di 4 anni, e la loro madre. C’era un anziano pacifista, Oded Lifshitz, 85 anni, che aveva speso la sua vita a cercare la pace tra israeliani e palestinesi. Non era un soldato. Non era un nemico. Era una persona che credeva e si batteva per una pacifica convivenza fra popoli.
Hamas lo ha rapito in un tempo di pace e lo ha usato, insieme agli altri ostaggi, come merce di scambio, trattandolo come un oggetto fino all’ultimo istante. A
nche Oded viveva nel kibbutz Nir Oz. È stato rapito insieme alla moglie, Yocheved dalla loro casa. È stato colpito alla mano e giaceva sul bordo della sua proprietà l’ultima volta che la moglie lo ha visto. Oded era un giornalista e attivista per la pace. I suoi nipoti lo chiamavano “Super Nonno” per la sua saggezza e il suo amore. Aveva una visione lucida di ciò che sarebbe potuto accadere se le divisioni tra israeliani e palestinesi si fossero aggravate fino a raggiungere un punto di non ritorno. «Quando i palestinesi non avranno più nulla da perdere, perderemo alla grande», aveva scritto qualche anno fa su Haaretz. «La domanda è: cosa faremo allora?».
Parole tragicamente profetiche. La moglie Yocheved è stata tra i primissimi ostaggi a essere rilasciata il 24 ottobre 2023, dopo 17 giorni.
Israele non ha mostrato per ora le immagini delle bare ai suoi cittadini. Sebbene ogni storia uscita il 7 ottobre abbia commosso e scosso profondamente il popolo israeliano, poche hanno toccato il cuore come quella famiglia Bibas. Il rabbino capo Sir Ephraim Mirvis ha pronunciato parole che restano incise come fuoco: «È pura malvagità prendere in ostaggio una madre, i suoi bambini piccoli e un uomo anziano. Ci vuole un altro livello di malvagità per essere responsabili della loro morte. E ancora un ulteriore livello di malvagità per scambiare i loro corpi per liberare centinaia di prigionieri, tra cui terroristi che stanno scontando l’ergastolo per omicidio».
Intanto Israele continua a essere in lutto. Un lutto che va oltre la morte, perché non è solo la perdita di quattro persone amate. È la consapevolezza di essere di fronte a un nemico che non conosce alcuna pietà. E la famiglia Bibas, con i loro capelli rossi, i loro volti pieni di vita, è diventata il simbolo di questa tragedia; una tragedia senza risposta, una tragedia senza un perché, segnata da infinito dolore.