di Nina Deutsch
Il Consiglio per i Diritti Umani denuncia le strategie di coercizione psicologica: il dolore dei familiari non può più essere ignorato. «Prendere ostaggi è un gioco crudele», dice il relatore speciale sulla tortura e chiede il rilascio immediato degli ostaggi in tutto il mondo.
Ci sono ferite che non si vedono, dolori che non sanguinano, disperazioni che restano soffocate dietro porte chiuse. Eppure, il loro effetto è devastante.
Lo scorso 3 marzo, il Consiglio per i Diritti Umani delle Nazioni Unite ha ascoltato una voce che ha dato nome e peso a un orrore troppo spesso ignorato. La Prof.ssa Alice Jill Edwards, Relatrice Speciale dell’ONU sulla tortura e altri trattamenti inumani, ha presentato un rapporto di grande rilevanza, atteso da molti: “La tortura e altri trattamenti crudeli, inumani o degradanti: la presa di ostaggi come tortura”.
Il documento non è solo una sequenza di parole burocratiche, bensì un riconoscimento ufficiale di un dramma che colpisce in modo atroce non solo gli ostaggi, ma anche innumerevoli famiglie. «Prendere ostaggi è crudeltà, pura e semplice, e quasi sempre comporta tortura – ha dichiarato Edwards – Infligge gravi sofferenze fisiche e psicologiche sia agli ostaggi che alle loro famiglie».
Il suo viaggio in Israele, tra le comunità colpite, non è stato solo un atto di osservazione. La Edwards ha visto in prima persona, con i propri occhi, il vuoto e lo strazio lasciati da chi è stato strappato via, ha ascoltato il silenzio assordante delle stanze rimaste vuote, ha percepito il dolore indescrivibile di chi resta sospeso in un limbo di paura, di attesa, di speranza.
Il rapporto denuncia esplicitamente le strategie di coercizione e guerra psicologica messe in atto da Hamas, con l’obiettivo di infliggere non solo sofferenza fisica agli ostaggi, ma un tormento insopportabile alle loro famiglie. Perché essere ostaggio non significa solo essere rinchiuso, ma anche essere parte di un crudele meccanismo di ricatto emotivo che spezza lentamente chi ama.
La richiesta della Relatrice Speciale all’ONU è chiara: riconoscere ufficialmente le famiglie degli ostaggi come vittime di tortura. Un passo necessario, non solo simbolico, ma concreto. Perché il dolore psicologico è reale tanto quanto quello fisico, e chi subisce una violenza così devastante merita giustizia, riconoscimento, supporto. Ogni giorno che passa, per queste famiglie è un’agonia. Ogni notizia è una scossa al cuore, ogni ora senza risposte è una condanna.
In questo scenario di sofferenza, il rapporto dell’ONU getta una luce su una realtà troppo a lungo ignorata. Non è solo un documento, ma una testimonianza. Un grido che chiede di essere ascoltato. Ma le parole non bastano. La consapevolezza internazionale deve tradursi in azioni concrete. Non si tratta solo di riconoscere il dolore: si tratta di agire. Perché dietro ogni ostaggio c’è una famiglia spezzata, dietro ogni attesa c’è un tempo che si allunga in modo disumano. E il mondo non può continuare a voltarsi dall’altra parte.
La tortura psicologica inflitta ai familiari è un’arma feroce, subdola, invisibile. Ogni messaggio di propaganda, ogni informazione negata, ogni frammento di speranza concesso e poi strappato via fa parte di una strategia studiata per annientare emotivamente chi resta. E questo non può più essere tollerato.
Le organizzazioni internazionali, i governi, la società civile devono mobilitarsi. Occorre fare pressione affinché le convenzioni sui diritti umani includano espressamente la sofferenza delle famiglie degli ostaggi come una forma di tortura. Occorre chiedere con forza il rilascio di chi è ancora prigioniero, senza ambiguità, senza esitazioni.
Perché il silenzio uccide quanto la violenza. E il tempo, per queste famiglie, è già fin troppo dilatato.
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