di Sofia Tranchina
I partecipanti hanno camminato tra le rovine di antiche sinagoghe, visitato un’ex scuola ebraica e un cimitero ebraico dove riposano i loro antenati, e passeggiato in città alla ricerca delle proprie memorie. Sarà possibile un ritorno degli ebrei nella Siria di al-Jolani, che promette inclusione, tolleranza e protezione delle minoranze etnico-religiose del Paese?
Per la prima volta dalla guerra civile siriana, una delegazione di ebrei siriani è tornata in Siria, e ha tenuto un gruppo di preghiera a Damasco.
A metà febbraio la Syrian Emergency Task Force (SETF), un’organizzazione senza scopo di lucro con sede negli Stati Uniti, è riuscita a portare una delegazione di ebrei in Siria. Hanno camminato tra le rovine di antiche sinagoghe, visitato un’ex scuola ebraica e un cimitero ebraico dove riposano i loro antenati, e passeggiato in città alla ricerca delle proprie memorie.
In un momento storico, si sono raccolti in preghiera nell’unica sinagoga ancora in piedi, Al-Faranj: non erano in dieci per il minian, ma erano lì, a tessere un filo tra passato e futuro, testimoni di una storia che sembrava ormai perduta.
Rose, gelsomini, oud e mirra: in una poesia di profumi, riaffiorano i ricordi di una Siria persa ma mai dimenticata per quelle centinaia di migliaia di ebrei emigrati che si sono lasciati alle spalle proprietà ed amicizie, ma anche persecuzioni e restrizioni.
Come tanti altri Arabische Yidden, ebrei arabi o provenienti da regioni musulmane, gli ebrei siriani si sono visti sottrarre i propri diritti e il proprio benessere nel corso dei secoli, fino alle persecuzioni del ‘900 che hanno spinto i rimasti a scappare all’estero. Ma dopo la caduta del regime di Assad, la situazione potrebbe cambiare.
La comunità dei sette ebrei in Siria
C’è un nuovo sceriffo in città, si chiama Ahmed Hussein al-Shar’a ma tutti lo conoscono come al-Jolani. Indossa giacca e cravatta, cercando di far dimenticare al mondo il suo passato da jihadista, ma non rinuncia alla “barba islamica”. E, in un colpo di scena a cui il pubblico ancora fatica a credere, ha promesso inclusione, tolleranza e protezione delle minoranze etnico-religiose del Paese di cui si è autoproclamato presidente ad interim. Potrebbero volerci fino a quattro anni per delle elezioni in Siria, dice.
A gennaio, Mohammad Badarieh, rappresentante del nuovo governo de facto siriano, si è messo in contatto con la comunità ebraica siriana – che ad oggi conta sette membri, anziani e per lo più infermi – e ne ha proclamato il nuovo capo: Bakhour Chamntoub Simantov. Si tratta di una posizione meramente simbolica, ma il gesto si inserisce nel tentativo del nuovo gruppo dirigente di presentarsi come garante delle minoranze siriane, e, nonostante lo scetticismo di Israele e dell’Occidente, potrebbe portare a una significativa collaborazione del Paese con la sua storica componente ebraica.
Mentre gli altri sei ebrei rimasti in Siria si sono abituati a non parlare pubblicamente per motivi di sicurezza, e per non essere etichettati come spie o collaboratori di Israele, Chamntoub è una celebrità: passeggia dicendo shalom a chiunque incontri, rilascia interviste, e pubblica su Facebook le sue avventure come “volto” degli ebrei in Siria.
In un colloquio di inizio gennaio con Chamntoub, Mohammad Badarieh ha promesso pace e sicurezza agli ebrei siriani, invitandoli a tornare in patria: «Buonasera a tutti da Damasco dalla casa del capo della comunità ebraica di Damasco. Il regime di Assad non esiste più e non c’è più paura. Non ci sono posti di blocco, né polizia segreta. Colui il cui nome non dovrebbe essere menzionato [Assad] non tornerà. Siamo un paese democratico. Vogliamo che tu chiami tutte le varie comunità a tornare in Siria. Vivranno qui in pace e sicurezza», gli si sente dire nel video dell’incontro.
La delegazione ebraica in visita
Mouaz Moustafa, il direttore esecutivo della SETF, ha organizzato la delegazione ebraica con il supporto del nuovo governo, che voleva agevolare la visita «come messaggio di pace», e che ha fornito sicurezza al gruppo. Secondo alcune speculazioni, l’ostentata apertura del governo è una strategia per convincere Washington a revocare le sanzioni. L’appello per un ritorno degli ebrei siriani potrebbe essere determinato anche dalla speranza che con loro entri nel paese il denaro guadagnato in occidente.
La delegazione di nove persone ha riportato il rabbino Yusuf Hamra e suo figlio Henry Hamra a Damasco per la prima volta da quando sono emigrati dalla Siria nel 1992. La famiglia Hamra era entrata in contatto con Mouaz Moustafa già nel 2014 quando, durante la guerra civile, la storica sinagoga del Profeta Elia Annavi venne distrutta: avevano contattato un residente del quartiere affinché raccogliesse e conservasse gli oggetti dalla sinagoga in una scatola, ma il regime di Assad confiscò la scatola, gli oggetti andarono perduti, e l’uomo scappò in Turchia. Fu lui a metterli in contatto.
Tornati in Siria dopo 30 anni di assenza, i Hamra sono stati accolti calorosamente dagli ex vicini, che li hanno abbracciati e li hanno aggiornati con gli ultimi pettegolezzi del quartiere. Henry Hamra ha ricordato che sotto Assad la sua famiglia aveva vissuto nella costante paura dei servizi segreti siriani, sottoposti a controlli rigorosi, e che cercava da quasi due anni di tornare in Siria, ma il regime non glielo permetteva.
Alla delegazione ha preso parte anche il rabbino Asher Lopatin, della Jewish Federation of Greater Ann Arbor, nel Michigan. Lopatin, pur non avendo origini siriane, è stato collegato al viaggio tramite un medico musulmano di Detroit con cui collabora nel contesto di progetti per il dialogo interreligioso. Ha raccontato di aver ricevuto un trattamento da VIP all’aeroporto, e di aver potuto camminare a Damasco indossando una kippah: «ragazzi, adulti, e personale della sicurezza, erano eccitati dal ritorno degli ebrei, perché per loro rappresenta una nuova Siria unita, che include tutti i siriani. Tutti quelli che abbiamo incontrato erano emozionati. È stato caloroso».
Joe Jajati, che aveva visitato la Siria quando era ancora sotto il controllo del regime di Assad, era in visita a Dubai quando gli hanno chiesto di recarsi a Damasco per provare a mettere insieme un minyan (che richiede 10 adulti ebrei). Nonostante li abbia raggiunti subito con un volo su Beirut e una corsa in macchina fino a Damasco, il minian non è stato raggiunto, ma la preghiera ha segnato comunque una tappa storica per la nuova Siria. Jajati ha raccontato che gli uomini si avvicinavano a lui, incuriositi dalla kippah, e gli chiedevano di fare una foto con lui: «non me l’aspettavo, ma è stato molto bello».
Cosa è rimasto dell’antica comunità ebraica in Siria
Nel quartiere ebraico di Damasco, intorno Al Amin Street, rimane la scuola ebraica Maimonides, fondata nel 1944 e chiusa da decenni: sulle pareti occhieggiano ancora i manifesti in ebraico. Molte vecchie case del quartiere hanno porte e finestre chiuse con sbarre di metallo e un cartello in arabo che dice: «l’immobile è chiuso dall’Alto comitato statale per gli affari degli ebrei».
La delegazione ha visitato anche i resti della Sinagoga e della Grotta del Profeta Elia Annavi, nel sobborgo di Jobar. Il luogo è rimasto per oltre un decennio al centro di una zona di guerra, campo di battaglia tra le forze del regime e i ribelli, ed era fino ad oggi inaccessibile.
Dalla splendida sinagoga, oggi distrutta, «è stato rubato tutto», ha raccontato Hamra: il Sefer Torah scritto su pelle di gazzella, i lampadari, gli arazzi e i tappeti, sono stati saccheggiati. Il gruppo è riuscito a trovare solo un resto di un arco con una Stella di David.
Il 29 dicembre, Chamntoub è stato il primo a visitarne i resti: «questa sinagoga significa molto per noi. Ebrei da tutto il mondo mi hanno chiamato per offrire aiuto nella ricostruzione». Una lastra di marmo in arabo ne indica la fondazione: 720 a.e.v., si tratta di una delle sinagoghe più antiche del mondo. Prima che il conflitto in Siria iniziasse nel 2011, i membri rimasti della comunità andavano ogni sabato a Jobar per pregare.
Il rabbino capo della comunità ebraica siriana in Israele Binyamin Hamra ha scritto una lettera al presidente ad interim Ahmed al-Sharaa in cui, dopo averlo benedetto, gli ha chiesto la protezione degli ebrei rimasti in Siria e la conservazione dei siti storici ebraici e delle proprietà e abitazioni degli ebrei siriani che hanno «dovuto abbandonare tutto contro la loro volontà».
In nome della «unità dei popoli» nella nuova Siria «multiculturale, tollerante e inclusiva», ha anche chiesto il restauro della Sinagoga del Profeta Elia, sostenendo che la sua distruzione durante la guerra «ha causato grande dolore a milioni di ebrei e musulmani in tutto il mondo, che credono che da questo luogo scaturisca una grande benedizione per tutta la Siria».
Cosa è cambiato con la caduta di Assad
In un’intervista con Ynetnews, il leader della comunità ebraica damascena Chamntoub ha affermato di non aver paura a parlare con i giornalisti israeliani, perché – mentre in passato, c’erano criminalità, paura e terrore – «il nuovo governo è migliore del precedente. Sotto questo regime c’è libertà, libertà di espressione: puoi dire quello che vuoi a chiunque tu voglia, e non c’è alcun problema in questo».
Chamntoub non ha mai voluto lasciare Damasco, nonostante le restrizioni: «ai tempi del regime, c’era un agente del mukhabarat (intelligence militare) di stanza nella mia strada, appositamente per sorvegliarmi. Arrestavano le persone solo perché venivano da me, perché compravano vestiti da me», ha raccontato, «l’agente chiedeva alle persone che venivano da me: “Ci sono mille sarti a Damasco, perché devi andare dall’ebreo?” E loro rispondevano, “perché è il migliore!”», spiega ridendo.
Tuttavia non è tutta acqua di rose (damascene). A causa delle carenze di beni primari quali acqua ed elettricità, la maggior parte dei siriani vive in «modalità sopravvivenza», e la situazione sarebbe peggiorata ulteriormente con il crollo delle istituzioni del regime di Assad.
Chamntoub, preoccupato per le vendette sommarie dei jihadisti al governo nei confronti degli alawiti e per le discriminazioni verso le minoranze non musulmane, ha ammesso che i barbuti combattenti islamisti arrivati da Idlib sono fuori luogo a Damasco: «hanno un aspetto spaventoso, con le loro maschere. Non capisco perché debbano coprirsi il volto. Se non hanno intenzione di fare nulla di sbagliato, perché dovrebbero nasconderlo? Rende le persone spaventate».
Inoltre, racconta, un combattente di Hayat Tahrir al-Sham ha occupato una delle vecchie case ebraiche che erano rimaste chiuse e vuote per 30 o 40 anni: «persino il regime non le ha toccate. Ma questo tizio si è presentato, ha forzato l’ingresso e si è rifiutato di andarsene, anche quando i miei vicini e io lo abbiamo affrontato».
Le radici storiche della presenza ebraica in Siria
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Seta, lana, cotone e spezie: la comunità ebraica siriana, dominata da commercianti e sarti, è tra le più antiche della storia dell’ebraismo. Stabilitisi nell’attuale Siria intorno al 990 a.e.v, ai tempi della leggendaria conquista di Damasco da parte di re Davide, la presenza millenaria degli ebrei è testimoniata dalla Stele di Zakur (VIII secolo a.C.) e dal Papiro di Elefantina (V secolo a.C.). Si narra anche che il profeta ebreo Elia si recò a Damasco per ungere Hazael come re di Aram intorno all’860 a.C.
La comunità fiorente di Damasco crebbe a dismisura nel 1099: quando i primi crociati cristiani conquistarono Gerusalemme e ne massacrarono gli abitanti “infedeli”, circa cinquantamila ebrei fuggirono nella vicina capitale siriana, che diventò così per un terzo ebraica. Un’altra ondata fu nel 1492, quando gli ebrei in fuga dall’Inquisizione spagnola arrivarono in Siria.
Sotto il dominio mamelucco gli ebrei siriani vissero diverse discriminazioni, mentre sotto quello ottomano (1299-1922), nonostante fossero sottoposti allo status di dhimmi, ovvero inferiori sottoposti a una tassa jizya, la comunità continuò a prosperare economicamente.
I cristiani però vedevano con sospetto gli ebrei per motivi religiosi ed economici, e le tensioni esplosero nel 1840 con l’Affare di Damasco, quando il frate francescano Padre Tommaso da Calangianus scomparve nella capitale. I cristiani locali accusarono falsamente gli ebrei di averlo ucciso per usare il suo sangue in riti religiosi, portando a violenze e saccheggi contro la comunità ebraica e all’arresto e alla tortura dei suoi membri.
Persecuzioni ed emigrazioni di massa
All’inizio del 1900, si stima che la comunità ebraica in Siria contasse circa 100.000 persone, ma negli anni successivi gli ebrei siriani affrontarono crescenti tensioni e restrizioni che li spinsero ad emigrare.
Il 30 novembre 1947, un giorno dopo che le Nazioni Unite avevano votato per dividere la Palestina in uno per gli arabi e uno stato per gli ebrei, violenze, discriminazioni, persecuzioni e rivolte antiebraiche esplosero. Gli arabi di Aleppo bruciarono cinquanta negozi ebraici, cinque scuole, diciotto sinagoghe e un numero imprecisato di case. Nell’agosto del 1948, a Damasco i rivoltosi uccisero tredici ebrei, per la maggior parte bambini. Il regime siriano nazionalizzò le proprietà degli ebrei, impose leggi discriminatorie, e limitò la loro libertà di movimento. Gli ebrei che venivano scoperti mentre cercavano di scappare dal Paese, venivano arrestati e torturati, e talvolta scomparivano.
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Negli anni ’70, quando Hafez al-Assad prese il potere, in Siria vivevano ancora diverse migliaia di ebrei. Sotto la dinastia totalitaria, gli ebrei hanno vissuto formalmente liberi di praticare la loro religione, ma con diverse restrizioni. Le loro vite ruotavano attorno ai permessi: non potevano registrare proprietà a loro nome, avevano bisogno di permessi anche solo per andare a fare un picnic fuori città, e, fino a venti anni fa, era loro vietato viaggiare fuori dal Paese, per evitare che portassero informazioni a Israele. Spesso venivano accusati di essere spie o collaboratori di Israele. Le persone venivano fatte uscire di nascosto dal paese, ma chi veniva scoperto veniva torturato, e le autorità andavano dai loro familiari, li arrestavano e li picchiavano.
Judy Feld Carr, una musicologa ashkenazita canadese che in Siria non c’era mai stata, riuscì con operazioni segrete “casalinghe” a far uscire clandestinamente 3.228 ebrei siriani, uno alla volta, corrompendo i funzionari di grado inferiore.
Spinto da pressioni internazionali, dopo l’inizio della Conferenza di Madrid del 1991 – in cui Israele partecipò a negoziati bilaterali di pace con i vicini arabi (Siria, Giordania, Libano, e Organizzazione per la Liberazione della Palestina) mediati dagli USA di Bush e dall’Unione Sovietica di Gorbachov – Assad permise a circa 4.000 ebrei siriani di emigrare, a condizione che non si trasferissero in Israele.
L’ultimo rabbino capo della Siria Avraham Hamra aiutò i rimasti a ottenere i visti di uscita.
Per anni, gli ebrei siriani hanno vissuto lontani, con la Siria impressa nel cuore come un profumo indelebile. Ora, per la prima volta, qualcuno sussurra un invito al ritorno. Sarà sincero? Nessuno lo sa. Ma tra le rovine della Sinagoga di Jobar, tra le pietre consumate dal tempo, forse un nuovo capitolo sta per essere scritto, e – con tutto lo scetticismo del caso – la nuova apertura nutre caute speranze di migliaia di ebrei halabi e shami in tutto il mondo di ritornare alle rose, ai gelsomini, all’oud e alla mirra.