Storia di un’amicizia e di un dialogo lungo 30 anni

Personaggi e Storie

di Fiona Diwan

Rav Giuseppe Laras e Mons. Carlo Maria Martini

Meno di un anno fa si erano scambiati in ebraico gli auguri reciproci, Chatimà tovà per Yom Kippur. Li univa la stessa timidezza, un certo modo di essere discreti e riservati, perfino vagamente ingessati, apparentemente freddi, forse dovuto alle stesse, comuni, origini torinesi. Giuseppe Laras e Carlo Maria Martini erano amici davvero, un’affinità elettiva, una corrente di affetto profondo li ha sempre uniti. Una specie di cammino parallelo durato più di trent’anni, da quando, all’inizio degli anni Ottanta, entrambi divennero, contemporaneamente, Rabbino capo, l’uno, e arcivescovo di Milano, l’altro. Spesso insieme, nella vita pubblica milanese, con i numerosi appelli congiunti: quello contro la guerra in Bosnia, per porre un freno alla sequela di lutti e stragi; la presenza, fianco a fianco, al Binario 21 quando la Stazione Centrale fu eletta luogo-simbolo del ricordo delle deportazioni milanesi, grazie alle pressioni della Comunità di Sant’Egidio; o ancora, l’appello voluto insieme, alla città di Milano “crocevia di culture diverse”, contro il razzismo e l’antisemitismo, in nome di un’accoglienza verso gli stranieri che avrebbe arricchito tutti i cittadini, ebrei, cattolici, musulmani, valdesi… E ancora: l’impegno profuso nel Dialogo a due voci, una doppia lettura, in chiave cristiana, cattolica, protestante e ebraica, di uno stesso brano del Tanach, al Centro San Fedele (un appuntamento unico, che ancora oggi continua). E poi la creazione del gruppo Teshuvà, ovvero il “ritorno” verso l’ebraismo da parte di cattolici, valdesi, protestanti, Teshuvà, ovvero “pentimento”, che mirava a ricreare col mondo ebraico un nuovo, positivo rapporto.

Un intendersi come di rado si è visto per un rabbino e un arcivescovo. Profondamente legati da un modo comune di vivere la spiritualità, il comune entusiasmo per gli studi talmudici e biblici, l’importanza data all’umano, forse prima ancora che al religioso. Da qui il dialogo con la realtà laica, presa sul serio e mai giudicata, la Cattedra dei Non Credenti di Martini e la cattedra di Pensiero ebraico all’Università Statale di Laras. Li legava la passione per la parola di Torà, il “piacere di spezzare le parole”, come diceva Martini, “il piacere di interpretare e fare Midrash”, gli rispondeva Laras.

Martini era un uomo che amava camminare rasente agli strapiombi, una vita spesa da non-allineato, come hanno detto in molti -voleva abolire il celibato per i preti e sosteneva che la Chiesa fosse indietro di 200 anni, dall’omosessualità alle coppie di fatto fino al dialogo con le altre fedi-.

Studioso e docente universitario, presidente del Tribunale rabbinico del Nord Italia, Rabbino capo emerito di Milano e Rabbino capo di Ancona, rav Laras è stato, insieme a Martini, uno dei pilastri intorno ai quali si è costruito il dialogo interreligioso in Italia. A lui abbiamo chiesto di rievocare la figura del Cardinale. Cogliendo anche l’occasione per ripercorrere le tappe e la storia di più di trent’anni di dialogo ebraico-cristiano. E quale sarà il futuro dopo la morte di uno dei suoi protagonisti.

Rav Laras, come ha conosciuto il Cardinal Martini?

Andai a trovarlo il giorno che prese possesso della diocesi. Era il 1980. Mi disse subito che voleva aprirsi al mondo ebraico e conoscerci meglio. Fino ad allora il Dialogo era stato stagnante, sapevamo che avrebbe avuto bisogno di un nuovo impulso. E sapevamo anche che avremmo incontrato molte resistenze, specie da parte cristiana. Da parte ebraica c’era poco interesse, semplicemente non si parlava con i soneé Israel, gli odiatori di Israele, con chi si rivolgeva a noi solo, forse, per convertirci. E da parte cristiana era impensabile dialogare con chi era considerato responsabile della morte di Gesù.

Tentando di storicizzare quei trent’anni, quali sono state le tappe più importanti del Dialogo ebraico-cristiano?

Ricordo uno dei primi incontri. Fu col gruppo Teshuvà, all’inizio degli anni Ottanta: volevamo commentare insieme lo Shemà Israel, prima io e poi Martini. Io, alla luce dei Maestri del Talmud; lui, alla luce del Vangelo di Luca. C’erano più di 300 persone, non volava una mosca e fu Paolo De Benedetti a cogliere questo gran bisogno di scambio e ascolto reciproco. Hashem Eloquenu, Hashem Echad. Riportai il commento di Rashi che interpretava il verso in questo modo: “quello che oggi è il Dio di Israel, domani sarà il Dio di tutti”. Martini allora intervenne dicendo che la predizione abramitica era giusta e che anch’egli la condivideva. Fu un momento molto alto, intenso, dal punto di vista spirituale e religioso.

Pensieri, parole ma anche la condivisione della memoria storica…

Sì. Un’altra tappa importante fu infatti la celebrazione della Giornata dell’Ebraismo, il 17 gennaio, occasione a cui Martini teneva tantissimo. Quella data stava a significare una cosa: che la Chiesa si poneva finalmente il problema dell’approfondimento della realtà ebraica. Ma molti parroci hanno sempre glissato su questa istanza, ignorandola. A Milano no, la data non passò mai sotto silenzio, fu sempre cercato e incoraggiato il confronto. Non ricordo bene le date o la sequenza degli eventi… Certo, ci fu l’incontro storico al San Fedele, il 17 gennaio 2001 e, ancor prima, il 30 novembre 1993, la visita dell’Arcivescovo in Tempio per il 50° Anniversario della Deportazione degli ebrei Italiani. Ricordo l’emozione: Martini era alto, austero, vederlo sulla tevah fu un evento storico. In verità, non avevamo preordinato niente, e così… improvvisammo, non c’era nessun discorso preparato né ufficiale, tutto fu fondamentalmente spontaneo, anche se Martini pesava le parole, voleva che fossero dense,  piene di significato. Ricordo un gesto di delicatezza estrema: entrato in Sinagoga, fece scivolare la grande croce pettorale sotto l’abito talare, solo la catena rimase appena visibile. All’uscita si soffermò davanti alla lapide dei deportati. Faceva un freddo tremendo. Lesse i nomi in silenzio, lentamente, poi mi guardò. Abbassò lo sguardo. Nessuno parlava.

Altri contributi importanti di quella stagione di Dialogo sono state le innumerevoli volte in cui, insieme, siamo stati al Binario 21; e poi quella cosa unica al mondo, che dura da vent’anni, ovvero il Dialogo a due voci, la lettura congiunta di uno stesso brano della Torà. Nel 1999 venne in Sukkà, nell’Ottagono della galleria, da rav Rodal, e io gli regalai un lulav.

Quale tratto del carattere del Cardinal Martini la colpiva di più?

Intuivo che era un uomo che aveva vissuto esperienze che l’avevano fatto soffrire. Aveva in sé qualcosa di doloroso e questo mi commuoveva. Sapeva capire e vedere con gli occhi degli altri e quando, ad esempio, parlava di Shoah ammetteva che quell’evento era stato l’esito di duemila anni di insegnamento del disprezzo verso gli ebrei, da parte del mondo cristiano. Nascondeva una verità sofferta e partecipava davvero al dolore di Israel, alla sua storia di persecuzioni. Aveva qualcosa di vibrante in sé e fu questo, credo, a generare la nostra amicizia.

In che cosa si manifestava la sua vicinanza al mondo ebraico?

Quando si parla del riconoscersi a vicenda, del non-combattersi, è la dimensione dell’umano, dell’essere persone prima ancora che uomini di fede, quella che deve prevalere. Solo su questa base ci si incontra; solo superando le barriere storiche o più strettamente dottrinali, ricordandosi che c’è la condizione umana che ci accomuna e ripristinando la forza dell’umano, la sua fragilità e delicatezza, il suo valore, che può avvenire il Dialogo. E questo lo sapevamo entrambi. Inoltre, Martini sottolineava, assieme a me, la necessità di restituire a Gesù un volto ebraico, di renderlo più vicino all’originale… E questo non era certo facile da fare accettare al mondo cattolico.

Il Dialogo resta ancora un fenomeno essenzialmente elitario?

Sì, certamente, è ancora un fatto verticistico. Ci sono molte resistenze, timori, confusione. Come, andare dai nostri persecutori, dicono gli ebrei? Come andare verso chi ha ucciso Nostro Signore?, ribattono i cattolici. A rimuovere le incrostazioni ci vorranno ancora decenni, ma penso che non si debba mollare. Martini ed io abbiamo sempre saputo che la realtà del Dialogo sarebbe stata complicata ma abbiamo creduto che fosse importante tenerlo in vita, alimentarlo, nutrirlo. Perché poi, ancora, noi ebrei dovremmo sostenere il Dialogo? Perché, in primis, esso è un deterrente contro l’antisemitismo e aiuta a smontare i pregiudizi; senza di esso l’antisemitismo avrebbe meno freni inibitori.

Cosa pensa di un Cardinale che andava a pregare sulla tomba di Maestri come Rabbì Akiva, Shlomo al Kavès, Yochanan ben Zakkai?

Martini sentiva intensamente il raporto con l’ebraismo antico e talmudico, voleva riappropriarsi della tradizione dell’ebraismo mishnico e orale, tradizione che fu ignorata e perseguitata dal Cristianesimo. Ecco perché cercava quelle tombe…

Quanto eravate coscienti del valore di ciò che stavate facendo?

Sentivamo il dovere di fare qualcosa ma non c’era nulla di preordinato o deciso a tavolino, nessuna volontà di passare alla storia. C’era una certa spontaneità, vivevamo alla giornata facendo di volta in volta quello che le circostanze dettavano. Insomma, non ci fu mai qualcosa di smaccatamente “politico”. Per questo, oggi, sarebbe davvero bello dedicare i Giardini della Guastalla a lui: è un luogo-simbolo, c’è tutto lì nei dintorni, valdesi, ebrei, l’università, la Curia…

Quale futuro oggi per il Dialogo? Non rischia di arenarsi dopo la morte del Cardinale?

Lo vedo più difficile, anche a causa di ciò che accade nella Chiesa di Roma, la non chiarezza di linea in proposito, questo stop-and-go che toglie entusiasmo…

Non dimentichi che io stesso, quale presidente dell’Assemblea rabbinica di allora, tre-quattro anni fa chiesi un time-out, una sospensione del Dialogo. Accadde quando Papa Benedetto XVI ripristinò la preghiera antiebraica dell’Oremus e quando -alla vigilia della sua visita alla Sinagoga di Roma-, il Papa, ancora, proclamò le virtù eroiche di Pio XII.

Fu allora che lei andò a trovare Martini: che cosa vi diceste?

Lui mi disse che si sarebbe rifiutato di officiare con l’Oremus e che non era più tempo per cose così. E poi mi convinse a tornare sui miei passi. Anch’io capii che non dovevo mollare, viceversa sarebbe stata rinfocolata quella ostilità che in certa misura è sempre stata presente nel mondo cristiano. Inoltre, Martini, da biblista eccellente qual era, sapeva quanto le radici del Cristianesimo affondassero nell’ebraismo, un legame che col tempo fu cancellato. E che l’unico modo per debellare la paura l’uno dell’altro era imparare a conoscersi, senza diffidenze. Certo, non è facile dire queste cose in ambito cattolico e, all’epoca, le sue parole suonavano davvero rivoluzionarie. Oggi, quei pochi che credono nel Dialogo, studiosi, prelati, ebrei, hanno tutti la sensazione di fare qualcosa di provvidenziale e difficile, ed indispensabile.

Com’è stato il vostro ultimo incontro?

Martini era lucidissimo ma aveva l’apparecchio di amplificazione della voce e Monsignor Damiano Modena captava le sue parole e le ripeteva ad alta voce. Non so perché abbiamo parlato di Heidegger e Martini ha obiettato che il titolo della sua opera, Sentieri interrotti, era un titolo sbagliato, tradotto male e che andava cambiato magari in Sentieri spezzati o altro. Quel giorno era presente anche il biblista e Dottore dell’Ambrosiana, Monsignor Borgonovo. Era il 2 maggio. A un certo punto, Martini volle alzarsi e mi venne vicino. Così gli presi le mani e gli diedi la berachà. Subito dopo lui mi mise il palmo delle mani sul capo e la ricambiò, sussurrando in ebraico. Eravamo tutti molto emozionati e commossi.

Capii così che quest’uomo non aveva paura della morte. Aveva soltanto paura del dolore. Chiese solo di farsi sedare perché non voleva morire soffocato, per insufficienza respiratoria. Ho provveduto a far spargere da qualcuno, sulla sua tomba in Duomo, a Milano, un po’ di terra di Eretz Israel. In fondo, era a Gerusalemme che avrebbe voluto farsi tumulare, tanto da aver comprato laggiù la sua tomba.

Ma è andata diversamente.