Valerie Hamaty

Valerie Hamaty: l’araba cristiana che sta conquistandosi la rappresentanza di Israele all’Eurovision con un messaggio di unità

Personaggi e Storie

di Marina Gersony
Si chiama Valerie Hamaty ed è emersa come una delle voci più promettenti della scena musicale israeliana. Cresciuta a Giaffa, una delle città miste più significative di Israele, la sua storia è quella di una giovane donna che attraversa la complessità della propria identità, riflettendo le sfide e le speranze che contraddistinguono il Paese in questo periodo. La sua voce ha conquistato milioni di spettatori, ma ciò che rende la sua storia ancora più unica e interessante, è il fatto che lei è una cristiana araba, una figura più che rara in una competizione che unisce Israele e il suo pubblico internazionale.

Come riporta il Times of Israel in un lungo articolo ricco di testimonianze e riflessioni, Hamaty ha catturato l’attenzione del pubblico israeliano con il suo talento, che l’ha portata ad essere una delle favorite dell’ultima edizione di “Rising Star” (HaKochav Haba), il talent show che da anni rappresenta una delle vetrine principali per l’Eurovision. Ma se la sua voce ha colpito, è la sua identità che ha sollevato non poche discussioni.

Un successo inaspettato

La sua ascesa nella competizione è stata fulminante, grazie alla sua interpretazione di canzoni come “Shema” e “Hurricane”. La prima, è l’iconico brano israeliano che intreccia la preghiera dello Shema, simbolo di fede e identità nazionale ebraica, mentre “Hurricane” è lo struggente brano incentrato sulle tragedie causate dal conflitto israelo-palestinese con cui Eden Golan ha rappresentato Israele al contest nel 2024, diventato un inno di resistenza post-7 ottobre, il tragico evento che ha segnato profondamente Israele.

Questi pezzi, che per molti sembrano rappresentare la “risposta” di Israele alla recente guerra con Gaza, hanno suscitato reazioni contrastanti, soprattutto considerando che Hamaty è l’unica concorrente araba di “Rising Star”. Ma dietro alla sua partecipazione si nascondono le sfide di una giovane donna che, pur essendo parte integrante della comunità araba, ha scelto di schierarsi pubblicamente con Israele, una scelta che ha messo alla prova le relazioni interetniche del Paese.

 

Una voce che unisce o divide?

Di fatto il percorso di Valerie non è stato privo di polemiche. In un contesto di tensione politica e sociale, dove le divisioni tra ebrei e arabi israeliani sono forti, il suo sostegno pubblico a Israele durante la guerra a Gaza ha sollevato critiche. Mentre molti la celebrano per aver infranto le barriere culturali, ci sono altri che la accusano di tradire le proprie radici arabe.

«Che un arabo possa rappresentare Israele su un palcoscenico internazionale è un’enorme fonte di orgoglio», ha dichiarato Zohurha Abonar, residente musulmana di Jaffa, la città natale di Valerie.

Ma altre voci non sono d’accordo. «La mia generazione nella comunità musulmana non la sosterrà mai», ha affermato una giovane donna di un gruppo vicino alla cantante, che ha accusato Hamaty di essersi schierata dalla parte degli ebrei israeliani durante la guerra. La sua decisione di indossare una spilla gialla a sostegno degli ostaggi e il suo impegno nel visitare i soldati feriti e partecipare ai funerali delle vittime del massacro del 7 ottobre sono stati visti da alcuni come segnali di una condotta troppo «allineata» alla parte israeliana.

Il duetto con Daniel Wais e l’incontro con Shani Goren

Il viaggio musicale di Valerie è stato segnato da momenti particolarmente emozionanti. Uno di questi è stato il duetto con Daniel Wais, figlio di una delle vittime dell’attacco di Hamas al Kibbutz Be’eri. I due hanno cantato “Hurricane”, brano – come già detto –che aveva un preciso significato politico, e hanno unito le loro voci in un messaggio di speranza e unità. La performance ha commosso molti, inclusi i familiari delle vittime, che hanno sostenuto Valerie, esortandola a «restare forte» di fronte alle critiche razziste.

Un altro incontro che ha segnato profondamente Valerie è stato quello con Shani Goren, una delle israeliane rapite a Gaza, che dopo la sua liberazione ha chiesto alla cantante di cantare in arabo per aiutarla a superare il trauma. Valerie ha risposto a questa richiesta, dicendo che la musica ha un potere trasformativo: «Se l’arabo scatena la paura in alcuni, il canto la trasforma, raggiungendo i loro cuori in un modo diverso», ha affermato.

Un messaggio di inclusività per l’Eurovision

Con la sua partecipazione all’Eurovision, Valerie rappresenterebbe una testimonianza viva del multiculturalismo israeliano, un Paese che da sempre cerca di bilanciare le sue identità diverse. Se dovesse vincere la selezione israeliana, ha già annunciato che canterebbe in inglese e in ebraico, sottolineando che la sua presenza come artista araba è già di per sé un messaggio di diversità. «L’obiettivo è entrare in contatto con gli europei, quindi l’inglese è necessario per fargli capire, e l’ebraico rappresenta Israele, la lingua ufficiale qui. Il fatto che io sia araba è già parte della storia», ha detto.

Per alcuni, la sua candidatura sarebbe una grande opportunità per Israele di mostrare al mondo una faccia diversa, quella di un Paese che celebra la diversità e non le divisioni. Ma per altri, la sua identità araba potrebbe essere percepita come una sfida alle tradizioni israeliane. «Non è facile per alcuni sentire l’arabo in questo momento», ha dichiarato suo padre, Tony Hamaty, sottolineando che, sebbene possa comprendere il dispiacere di chi si sente turbato dalle lingue arabo-israeliane in tempo di guerra, la sua posizione è chiara: «Dobbiamo stare dalla parte dello Stato, siamo israeliani».

La musica come strumento di dialogo

Cresciuta a Giaffa, città mista, Valerie ha imparato sin da piccola a navigare tra mondi diversi. Parla cinque lingue e ha iniziato la sua carriera musicale esibendosi in cerimonie pubbliche che celebravano le vittime di guerra israeliane, come nel caso del Memorial Day, un giorno che simbolicamente unisce tutti gli israeliani ma che di fatto è celebrato principalmente dalla popolazione ebraica. Questo suo impegno musicale, che l’ha portata anche a partecipare al viaggio della “March of the Living” ad Auschwitz, ha fatto di Valerie una figura di riferimento per molti giovani arabi israeliani, che vedono in lei un simbolo di integrazione e speranza.

Oggi, mentre si prepara per il possibile debutto sull’Eurovision, Valerie è consapevole delle difficoltà che la sua musica può incontrare, ma è anche determinata. La sua storia non è solo quella di una cantante che cerca il successo, ma di una giovane donna che vuole dimostrare che la musica può superare le divisioni, che unire attraverso l’arte è possibile, anche in tempi difficili come quelli che Israele sta attraversando. Come ha detto suo padre, se Valerie dovesse vincere, «dimostrerà che il razzismo non ha l’ultima parola».

In un Paese in cui le identità si intrecciano, Valerie Hamaty sta cercando di cambiare la narrativa. La sua musica non è solo intrattenimento, ma un invito a riflettere sulle potenzialità di un Israele che possa davvero essere il simbolo di una coesistenza tra popoli e culture diverse. Se riuscirà a vincere la selezione nazionale, il palco dell’Eurovision potrebbe essere l’occasione per mostrare al mondo che la diversità non è un ostacolo, ma una risorsa da celebrare.